
La didattica inclusiva
Costituzione, art. 34: «La scuola è aperta a tutti». Questa frase perentoria e sintetica non è solo un’affermazione di principio, ma deve essere intesa come un obbligo morale e etico della Repubblica nei confronti dei cittadini, di tutti i cittadini, non essendo da essa ammessa differenza alcuna tra gli stessi.
La Carta Costituzionale, infatti, mette tutti i cittadini sullo stesso piano, a tutti riconosce le stesse opportunità e gli stessi diritti. Allo stesso modo la scuola, emanazione della Repubblica deputata all’istruzione dei giovani cittadini, non può fare distinzione alcuna.
Il sistema di istruzione ha modificato il suo paradigma operativo passando dal diritto allo studio al diritto all’apprendimento. Si è affermato l’orientamento educativo, un vero e proprio stile didattico, conosciuto sotto il nome di educazione di qualità per tutti, o come didattica inclusiva anche per dare compimento sostanziale al dettato costituzionale. L’aggettivo caratterizzante (inclusiva) sta ad indicare che la scuola, tanto come istituzione impersonale quanto a livello di ogni suo rappresentante, è chiamata a farsi carico dell’educazione di qualità di ogni alunno, a prescindere dalla presenza o meno di disagi o di vere e proprie disabilità.
La scuola, si ribadisce, deve farsi carico delle diversità individuali, non certo per appianarle o tentare di annullarle, bensì, al contrario, per rispettarle e promuoverne lo sviluppo. È proprio la diversità, infatti, che funge da forza trainante per il miglioramento e per l’evoluzione del singolo e della società. Nei regimi totalitari, come ben sappiamo e come possiamo verificare ogni singolo giorno dai mass media, il potere costituito tende ad imporre il pensiero unico e massificante per mantenere quanto più a lungo lo status quo. La stessa cosa si sta cercando di far passare anche nei Paesi che si professano democratici.
Mettere in pratica i principi della didattica inclusiva è molto impegnativo e richiede molta attenzione, molto impegno e molta passione per il proprio lavoro. Bisogna, infatti, avere la consapevolezza che la normalità non esiste e quella che chiamiamo solitamente normalità è solo la sommatoria di peculiarità personali che reputiamo accettabili, che ricadono nel nostro orizzonte socio-culturale, nel nostro immaginario di normalità, appunto.
Quando, invece, le caratteristiche personali vanno al di là di tale orizzonte, allora li impacchettiamo in categorie diverse cercando di trovare un minimo comun denominatore, un accettabile grado di sovrapposizione per avere lo spazio operativo necessario per attivare un trattamento, se non unico, almeno molto simile.
La mente non può non andare a don Lorenzo Milani: «Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi».
Nelle nostre aule, grazie alla miopia di una classe politica distratta da ben altri interessi, ci si trova a dover rispondere ad oltre 20 alunni e diventa invero difficile dare risposte personalizzate ad ogni singolo componente della classe. Si è portati, quindi, a cerca affannosamente un punto di sintesi tra le due opposte necessità, un punto di sintesi che, pur tenendo conto della necessaria personalizzazione, presenti un livello accettabile di standardizzazione. Non è semplice ed anche con tutta la buona volontà è facile cadere in errore.
Ci si può aiutare, però, ricorrendo ad alcuni strumenti pedagogici di varia natura:
- L’integrazione della tecnologia nella didattica. Prima fra tutte le tecnologie, oggi disponibile in praticamente tutte le classi, è senza dubbio la LIM, ma non è certo l’unica. Si pensi, poi, agli strumenti compensativi e, per altri versi, agli strumenti dispensativi. Detti strumenti sono un valido aiuto non solo nei casi eclatanti, omologati, quali possono essere i BES ed all’interno di essi i DSA, ma possono servire allo scopo anche ne casi di disagio più lieve.
- Il cooperative learning e la peer education. Il ragazzo con un qualsivoglia disagio, anche transitorio, si sente integrato in un tutto che non lo giudica, si sente in grado di dare e di fare la sua parte senza che vi sia una logica di competizione e questo fa sì che dia il meglio di sé e lo porti ad acquisire quanto programmato con maggiore facilità perché aumenta la sua motivazione e la sua autostima. In questa metodologia possiamo inserire anche attività di service learning.
- La didattica metacognitiva. In base a simile tipologia didattica, l’attenzione dell’insegnante non è esclusivamente ricolta all’elaborazione di un prodotto oppure ad «insegnare come fare a …», bensì anche a far sviluppare negli allievi, in tutti gli allievi, capacità mentali superiori.
Oltre gli strumenti appena visti c’è poi da considerare tutta la parte relativa alla necessaria ed ineludibile professionalità del docente. L’insegnante, infatti, è tenuto a cercare, a trovare ed a valorizzare tutte le differenze individuali. Deve essere, questo, suo interesse primario, sua attività principale.
Se deroga da tale obbligo etico e morale, prima che deontologico, non si potrebbe certo parlare di scuola inclusiva. In assenza di un tale atteggiamento da parte del docente, infatti, tutti i ragazzi sembrerebbero uguali, coacervo di una umanità indistinta, ne consegue che non avrebbe senso parlare di inclusione dal momento che sarebbero tutti inclusi in detto coacervo. La lezione, quindi, di qualunque tipo essa sia e con qualunque metodologia venga esperita, sarebbe pur sempre rivolta ad un individuo standard che esiste soltanto nell’immaginario del docente, ma che non attiene alla realtà.
Una volta trovate e valorizzate come risorse tutte le differenze individuali, deve lavorare sulle attività didattiche differenziandole, personalizzandole ed individualizzandole in modo da motivare tutti i suoi alunni. Deve proporre, quindi, attività che siano abbastanza flessibili al fine di permettere la partecipazione diffusa della classe, coinvolgendo ogni alunno in base alle proprie capacità, ai propri interessi ed ai propri tempi.
La partecipazione attiva e paritetica, nel senso che tutti gli alunni debbano godere della stessa considerazione, all’interno del gruppo e l’assenza di competizione non farà altro se non promuovere l’autonomia operativa e scelte che siano effettivamente personali. Lo stesso effetto positivo si potrà osservare per quanto riguarda il senso di responsabilità e l’autoconsapevolezza dell’alunno.
Per i casi particolari e conclamati, la norma mette a disposizione due strumenti ad hoc: il PEI -piano educativo individualizzato-, obbligatorio in caso di disagio supportato da certificazione medica, ed il PDP -piano didattico personalizzato- lasciato alla discrezionalità della scuola e del Consiglio di classe.
Il PEI, al contrario del PDP stilato autonomamente dalla scuola che ne è la sola ed unica responsabile, prevede, come da normativa vigente, il coinvolgimento dell’equipe medica che è chiamata a stilare una relazione ad hoc su cui la scuola, di concerto con la famiglia deve elaborare il documento finale.
Nel caso del PEI la responsabilità è da suddividere tra medici e scuola, Consiglio di classe in particolare.
In entrambi i casi, un ruolo di primo piano deve essere svolto dal docente di sostegno, ribadendo, però, che deve essere coinvolto tutto il Consiglio di Classe e che il ragazzo che manifesta disagio o vera e propria patologia non è da affidare, anzi da delegare, esclusivamente al collega di sostegno.
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Breve sitografia
- https://www.scuola.net/news/396/i-pilastri-della-didattica-inclusiva
- https://www.erickson.it/it/mondo-erickson/articoli/dsa/didattica _inclusiva_scuola_accessibile/
- https://www.universoscuola.it/cos-e-la-didattica-inclusiva-definizione-obiettivi-strategie.htm
- https://didatticapersuasiva.com/didattica/che-cosa-si-intende-per-didattica-inclusiva
- https://www.facebook.com/groups/482259195223616/?locale=it_IT
- https://didatticainclusiva.loescher.it/
- https://rivistedigitali.erickson.it/integrazione-scolastica-sociale/archivio/vol-20-n-1/limportanza-della-meta-cognizione-per-un-apprendimento-inclusivo1/
Immagini: Tutte le immagini a corredo dell’articolo sono scatti dell’autore dell’articolo stesso eseguiti a Curinga (CZ)