La differenza è…

La differenza è…

17 Settembre 2023 0 Di giuseppe perpiglia

Capita non di rado che, usandole ed abusandole, le parole perdano il loro significato originario per acquistarne altri dai contorni semantici molto più sfumati. Ne consegue un loro utilizzo a volte improprio o fuori luogo. Evenienze simili si manifestano anche in seno all’istituzione dedicata alla cultura: la scuola.

Questo destino è capitato, nelle istituzioni scolastiche e tra docenti, ai termini inclusione e integrazione. La presente affermazione è basata sulla mia personale esperienza e, quindi, da prendere con le classiche pinze. Spero tanto che sia un’esperienza molto circoscritta e non del tutto veritiera.

L’uomo, da sempre, ha visto la diversità a volte con paura, molto più spesso con diffidenza. Il termine di paragone, la meta cui tendere, è da sempre la normalità. Ma cosa è in fondo la normalità? In fin dei conti, se andiamo a ben vedere, la normalità è una situazione che non esiste come tale. Esiste, invece, come concetto. Esistono, infatti, tante diversità più o meno vicine ad un modello ritenuto accettabile, normale, appunto. Gli individui ed i comportamenti che si discostano entro limiti ritenuti, dai più, ammissibili, rientrano nell’insieme della normalità. Superati, per un qualsiasi motivo, tali limiti, totalmente arbitrari, si diventa, diversi.

I limiti sono aleatori perché dipendono dalla cultura imperante e, in scala ridotta, dal gruppo sociale al quale il soggetto appartiene ed in cui si riconosce. Da adulto ben pensante, mi vengono in mente quei giovani pieni di piercing su tutto il corpo o l’eccessivo, sempre a mio avviso, ricorso a tatuaggi che coprono ogni singolo pezzetto di pelle e mostrati come caratteristiche di cui andare fieri.

Nell’antica Sparta, famosa per la grande considerazione in cui venivano tenuti la forza fisica ed il coraggio, i bambini che nascevano con una qualche deformità, venivano abbandonati sulla rupe del monte Taigeto, andando, molto spesso, incontro a morte.

Nel corso dei secoli la sorte dei diversi ha continuato ad essere contrassegnata dalla non accettazione nel contesto sociale dei normali. Pagavano lo scotto del loro stigma con l’esclusione.

Anche la scuola era sulla stessa lunghezza d’onda della vulgata popolare, neanche l’istituzione culturale per eccellenza faceva eccezione se è vero, come è vero, che teneva i ragazzi con una qualche “diversità”, anche solo caratteriale, in appositi recinti chiamati “classi differenziali”, perché, appunto, si differenziavano dai ragazzi normali.

La situazione attuale è molto diversa anche se ancora oggi qualche collega preferisce che il docente di sostegno ed il ragazzo coinvolto, suo malgrado, da tale problematica vadano fuori dalla classe per non disturbare il normale e tranquillo fluire della lezione.

I cambiamenti che vanno a modificare la mentalità hanno bisogno di molto tempo e di tanta pazienza.

Nella scuola il concetto di accoglienza delle diversità, vere o presunte, è stato introdotto lentamente, per gradi ed il primo atto fu la promulgazione della legge 4 agosto 1997, n. 517 -Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico- che dava compimento ad alcuni prescrizioni contenute nella nostra Costituzione. Il testo costituzionale, infatti, garantisce il diritto allo studio per tutti (art. 34), afferma la pari dignità sociale di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (art. 3) ed infine, ma non ultimo, con l’art. 38 che si occupa specificatamente del diritto allo studio delle persone diversamente abili: “gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale”. Il linguaggio e la terminologia risentono ancora pesantemente del periodo storico in cui la Costituzione fu concepita, ma il concetto di un’effettiva inclusione cominciava a farsi strada.

Come per altri articoli, la piena ed effettiva applicazione del dettato costituzionale ha dovuto aspettare bel oltre la data della sua approvazione per trovare riscontro pratico. Il tempo necessario perché un concetto trasmigri dalla carta alla mente delle persone è sempre lungo.

La crepa creata dall’approvazione della legge 517/1977 fu allargata dall’emanazione della legge 5 febbraio 1992, n. 104 “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”. Anche in questo caso è da notare la terminologia ben poco attenta e riguardosa, infatti si parla di integrazione e di handicappati, mettendo, quindi, l’accento, non sulla persona nella sua interezza, bensì sulla sola diversità.

All’inizio dell’articolo abbiamo accennato all’alterazione di significato che si manifesta per le parole troppo abusate. Ritorniamo su questo argomento facendo notare come, già nel titolo, la legge 104/1992 parli di integrazione, che ha un significato ben diverso da inclusione. Tra integrazione ed inclusione esiste una gerarchia valoriale non da poco. La gerarchia completa vede al terzo posto il termine inserimento. Una persona, perché di persone stiamo parlando, e non di patologie o mancanze, viene posto in un luogo, in un contesto sociale o in un gruppo, senza, per questo, avere ulteriori caratteristiche. Il gradino subito superiore è occupato dal termine integrazione con il quale si indica il processo con cui gli individui diventano parte integrante di un qualsiasi sistema sociale, aderendo in tutto o in parte ai valori che definiscono l’ordine normativo. Il vocabolario on line della Treccani così descrive il termine integrazione: «incorporazione, assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita». (da https://www.treccani.it/vocabolario/)

Il significato appena dato lascia ben poco spazio all’interpretazione, infatti, il soggetto integrato è tale solo se diventa simile al gruppo in cui entra a far parte. In altri termini, deve adeguare le sue peculiarità a quelle del gruppo che lo accoglie.

In seguito si iniziò ad utilizzare il termine inclusione. In questo caso il soggetto viene accolto nella sua interezza, con le sue caratteristiche. Le peculiarità personali vengono preservate, anzi vengono spesso viste, non come una diminuzio, bensì come un arricchimento per tutto il gruppo.

Il processo che ha portato dalle classi differenziali, all’inserimento, prima, quindi all’integrazione ed oggi, finalmente, all’inclusione è continuato acquisendo connotazioni sempre più analitiche.

Infatti, prima l’attenzione fu timidamente ed esclusivamente riservata alle diversità più evidenti, sia fisiche che psichiche. In seguito, la normativa e la pedagogia cominciarono ad interessarsi anche a situazioni che prima non venivano contemplate. Il riferimento è a quella categoria di problematiche che sono state conglobate nel gruppo dei DSA – disturbi specifici dell’apprendimento. Sono disordini funzionali che passavano sotto silenzio e che facevano sì che coloro che ne erano portatori fossero etichettati con accezioni negative. Oggi sappiamo che vi sono quattro tipologie di DSA:

  1. La dislessia indica la difficoltà di lettura. Le singole operazioni mentali che sono necessarie per leggere (come la decodifica di lettere, sillabe e di parole, per esempio) non vengono in maniera automatica. Di conseguenza, l’alunno fa una grande fatica nell’attività di comprensione e memorizzazione.
  2. La discalculia è invece il disturbo che rende difficile attribuire ai numeri il valore corretto e che genera confusione nella lettura della posizione delle cifre. Per esempio, una persona che soffre di questo tipo di disturbo fa molta fatica a distinguere tra 269 e 692. In sintesi, quindi, è il disturbo relativo all’apprendimento del sistema dei numeri e dei calcoli.
  3. La disgrafia riguarda la capacità di scrittura, intesa da un punto di vista motorio-esecutivo. La dimensione disordinata delle lettere, la distanza irregolare tra queste e l’ortografia, rendono spesso le parole illeggibili anche per la persona che le ha scritte.
  4. La disortografia consiste nella difficoltà di passare dal linguaggio orale al linguaggio scritto, disagio che è dovuto all’incapacità di tradurre i suoni in simboli grafici. (classificazione tratta dal sito asnor.it).

I quattro disturbi appena elencati possono apparire singolarmente, ma è molto frequente l’associazione fra due o più di essi (co-morbilità). Si tratta di disturbi che si caratterizzano per essere specifici e per la loro matrice evolutiva. Sono detti specifici perché interessano esclusivamente determinati processi di apprendimento, mentre l’aggettivo evolutivi deriva dal fatto che il bambino non sviluppa una capacità che per gli altri diventa invece un automatismo. La norma di riferimento per i DSA è la legge 8 ottobre 2010, n. 170 Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico che assegna alle istituzioni scolastiche la responsabilità di individuare le modalità didattiche più adeguate per l’inclusione di alunni con DSA.

Con il rapido progredire della ricerca pedagogica, è stato ampliato il campo di indagine, e corrispondentemente anche gli interventi didattici e normativi necessari, si è ampliato ed oggi, infatti, di parla si BES -Bisogni educativi speciali. Non si tratta di un ulteriore gruppo di problematiche, bensì di un ampliamento che include e raggruppa al suo interno anche i DSA. L’acronimo BES sta per bisogni educativi speciali e comprende tutte quelle variabili, croniche o transitorie, che possono ostacolare il processo di apprendimento del ragazzo. Le variabili di cui stiamo dicendo possono essere di natura sociale, economica, familiare, culturale, ambientale o di qualsiasi altro tipo.

I BES hanno trovato dignità internazionale, infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità li ha inseriti nella Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (in sigla ICF dall’inglese International Classification of Functioning, Disability and Health) definendoli come: “qualsiasi difficoltà evolutiva di funzionamento permanente o transitoria in ambito educativo o di apprendimento, dovuta all’interazione tra vari fattori di salute e che necessita di educazione speciale individualizzata”. La norma italiana ha dedicato ai BES la dovuta attenzione che si è concretizzata, tra le altre, nella Circolare Ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013 che richiama la Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012.

La chiosa finale dell’articolo non può se non contenere l’invito a guardare alle diversità come ad una fonte di arricchimento, tanto per l’individuo quanto per il gruppo. Bisogna che ogni soggetto coinvolto, e maggiormente il docente per il suo ruolo di modello e di esempio, si apra verso l’altro e verso la diversità perché ognuno di noi potrebbe trovarsi nella condizione di diverso, dipende solo dall’ambiente in cui si trova. Inoltre, ogni persona ha proprie caratteristiche peculiari che possono trovare compimento solo nella collaborazione e nella condivisione con gli altri. La chiusura porta solo all’immobilismo, anche nel campo dell’evoluzione culturale. Dobbiamo andare ben oltre il falso ed ipocrita buonismo della tolleranza.

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