
Autoritarismo o autorevolezza?
Nei rapporti asimmetrici una criticità sempre in agguato ed alla quale bisogna prestare molta attenzione è il corretto posizionamento del discrimine tra autoritarismo ed autorevolezza. Entrambi i termini hanno la loro radice in “autorità”, lemma che deriva dal latino “auctoritas” e che significa “legittimità”. Ne risulta che l’autorità è la legittimazione di una posizione di predominanza nel rapporto, infatti indica la condizione di chi è investito di potere e di funzioni.
Nella scuola, all’interno dell’aula, l’autorità è riconosciuta al docente, ma è dirimente per i risultati da raggiungere la modalità con cui essa viene esperita. Infatti, l’autorità può essere messa in pratica con modalità caratteristiche dell’autoritarismo oppure grazie ad un’autorevolezza riconosciuta dalla controparte.
L’autoritarismo è l’atteggiamento di colui che impone la propria autorità con la forza, sia essa fisica o psicologica. In questo caso l’autorità parte dal soggetto investito del potere e si riversa sul soggetto in posizione subalterna. Quando, invece, l’autorità segue il percorso inverso, quando, cioè, il soggetto in posizione subalterna riconosce motu proprio l’autorità al soggetto preminente perché ne apprezza i meriti e le qualità, allora si parla di autorevolezza.
Mentre l’autoritarismo riconosce una dinamica di oppressione e di chiusura verso il cambiamento, l’autorevolezza, al contrario, si realizza nell’apertura, nella collaborazione e nella ricerca di un miglioramento continuo.
L’autoritarismo, infatti, è un rapporto monodirezionale ed impositivo che tende a mantenere lo status quo. Un rapporto basato sull’autoritarismo è un rapporto malato che tende a distruggere ed a creare macerie psicologiche, anche nell’animo di chi opprime.
D’altro canto, un rapporto basato sull’autorevolezza è molto più leggero, edificante e gratificante. È una vera primavera dell’anima perché fa fiorire il bello ed il buono che alberga in ognuno di noi.
Ancora, l’autoritarismo tende a sminuire sempre più il soggetto debole per mantenere la propria posizione dominante e continuare a primeggiare, mentre il soggetto autorevole tende a promuovere le capacità del soggetto in condizione subordinata, aiutandolo a dispiegare tutte le proprie potenzialità. E questo rende conto anche della differenza tra un capo ed un leader.
Nelle aule l’autoritarismo dovrebbe essere fermamente bandito per lasciare posto alla promozione ed al potenziamento dell’autorevolezza, anche quella del ragazzo, perché la finalità ultima del sistema di istruzione è “il pieno sviluppo della persona umana”. Un rapporto autorevole, per sua natura, opera un positivo effetto sull’autostima del ragazzo, primo passo verso la propria affermazione e la propria maturazione.
Questo ambizioso ed impegnativo traguardo, però, deve partire dal riconoscimento dell’altro con le sue precipue esperienze, capacità ed aspirazioni. Tale conoscenza può essere acquisita soltanto con un confronto aperto e con una relazione efficace che, a sua volta, viene resa possibile da un ascolto attivo.
Ma come promuovere e perseguire l’autorevolezza?
Gli elementi irrinunciabili per costruire autorevolezza, strettamente uniti tanto da essere inscindibili, sono l’empatia e l’ascolto attivo. È ben difficile che sia presente l’uno in assenza dell’altra e viceversa.
L’empatia, dal greco «in» e «pathos», letteralmente significa dentro il dolore e, per estensione, dentro le emozioni dell’altro. Come riporta il vocabolario Treccani on line, «In psicologia, in generale, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. Più in partic., il termine indica quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica».
Come affermato da tutti i moderni studi pedagogici, ogni ragazzo è un unicum e la scuola deve occuparsi, in particolare, di “quel ben preciso ragazzo” con le sue precipue caratteristiche e con la sua propria personalità. Il docente non può e non deve rivolgersi ad un ipotetico “ragazzo standard” che non esiste se non nella fantasia di chi lo ha prospettato. Così facendo, il docente verrebbe meno a quanto imposto dalla normativa vigente (la scuola di tutti e di ciascuno) ed a quanto richiesto dall’etica professionale.
Occuparsi di uno specifico ragazzo vuol dire, però, conoscerlo fino in fondo in modo da aiutarlo a portare a compimento le potenzialità di cui dispone, vuol dire aiutarlo a realizzare i propri sogni, a spendere correttamente ed efficacemente i propri talenti.
Educare con tale modalità, però, è molto impegnativo perché tira in ballo tutto l’essere dell’insegnante, infatti, come affermava il Presidente Sandro Pertini: «I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi, di onestà, di coerenza e di altruismo». E proprio l’esempio è il miglior maestro. Ecco, allora, che essere un buon docente diventa un fattore di crescita personale. Inoltre, attivando una relazione empatica, il ragazzo vedrà nel docente un punto di riferimento sicuro ed affidabile, non certo un soggetto che impone il da farsi, bensì un soggetto con cui può confrontarsi. Un soggetto da cui può anche dissentire ed il suo dissenso servirà come momento di crescita proprio ed altrui.
Durante le quotidiane navigate in internet, in particolare su Facebook, mi sono imbattuto in questa frase:
Dirigili invece di controllarli.
Disciplinali invece di reprimerli.
Guidali invece di rimproverarli.
Guardali. Ascoltali.
Conoscili. Amali.
Incoraggiarli ad essere chi sono e non chi vorresti che fossero.
Soprattutto questa ultima frase ha potere dirimente per il lavoro del docente e dell’educatore in genere. Un genitore, al pari di un docente, traguarda il figlio o il ragazzo che gli sta davanti con i propri occhi ed immagina per esso un certo qual futuro, che però rispecchia le aspettative dell’osservatore. Dovremmo, invece, abituarci ed imporci di entrare in comunicazione empatica con il figlio o con il ragazzo per sapere come “lui” vede il proprio futuro ed aiutarlo a realizzarlo.
Chiudo questo articolo con una frase presa da un’intervista del 2019 al filosofo Umberto Galimberti che rende efficacemente l’idea: «L’insegnante deve insegnare. Per farlo serve una capacità empatica e comunicativa, la fascinazione. Se non apri il cuore, non apri nemmeno la testa delle persone. Gli insegnanti dovrebbero essere sottoposti a un test di personalità che valuti queste cose. Se uno non sa affascinare è meglio che cambi lavoro».
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