
Cancel culture
Stiamo vivendo in una società disgregata e liquida per cui assume un’ulteriore caratteristica: è una società disorientata, ma non perché non abbia punti di riferimento, bensì per il problema diametralmente opposto: ne ha troppi! La negatività di tale situazione è che nessuno di questi pseudo-punti fermi ha un’autorevolezza tale per riuscire ad imporsi sugli altri. Non può non venire in mente Franco Battiato e la sua ricerca di “un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente”.
Altri potrebbero controbattere puntando sulla validità della famosa frase di James Russell Lowell: «Soltanto gli imbecilli non cambiano mai opinione». Non si sta, però, affermando che non bisogna mai cambiare opinione, ma che bisogna avere consapevolezza tanto dell’opinione che si sta cambiando quanto di quella che si sta abbracciando. Per cambiare opinione, infatti, una bisogna pure averla! Ed avere un’opinione ed essere consapevole di essa vuol dire essere giunti ad una conclusione dopo essersi informati ed aver riflettuto sulle informazioni, spesso discordanti, acquisite.
La sempre maggiore rapidità del vivere quotidiano, però, ha portato ad una latitanza sempre più spinta dei momenti riservati alla raccolta di informazioni ed alla riflessione su di esse per cui le eventuali opinioni personali, quando ci sono, tendono a rimanere superficiali, per cui sono quasi sempre sprovviste delle necessarie radici culturali, frutto di ricerca e di riflessione personale, e questo fa sì che vengano spazzate via da un seppur flebile stormir di fronde.
Si tende all’assolutizzazione del pensiero perché risulta essere un comportamento ed un atteggiamento molto più facile e ben poco impegnativo. Si tende ad arroccarsi su convinzioni spesso frutto di preconcetti e non si lascia spazio al dialogo vero, al dialogo che è in grado di portare all’arricchimento personale perché porta all’acquisizione di nuove conoscenze e di nuovi punti di vista. A questo bisogna aggiungere le nefaste conseguenze del protagonismo indotto dalla pseudo-democratizzazione introdotta dalla rete. Ognuno pensa di avere la verità in tasca ed innesca polemiche e discussioni che fungono da centro di aggregazione per gruppi di individui che non aspettano altro se non di spendersi e di mostrarsi vivi ed impegnati, digitando convulsamente sulla tastiera, per una causa qualsiasi, magari senza conoscerne i contorni precisi.
Lo spunto di questo articolo l’ho attinto dalla lettura, ovviamente in rete, della notizia che si vorrebbe mettere al bando, o comunque sconsigliare vivamente, la classica favola con i classici personaggi: il principe azzurro e la bella principessa vittima del sortilegio di una strega cattiva che, per una vendetta dettata dalla cattiveria, la fa cadere in un sonno profondo che solo l’amore potrà spezzare. La notizia bomba, lo scoop che ha animato il web di sacrosanto furore digitale è che il bacio che il principe ha dato alla bella addormentata non era consensuale. Sono considerazioni che portano a dubitare fortemente della convinzione, data per assodata, che l’uomo sia un animale intelligente.
Si decontestualizza un’affermazione o un fatto, lo si estrapola dal contesto socio-culturale e dal contesto spazio-temporale in cui è nato ed in cui ha un senso e lo si strumentalizza per motivi altri, che nulla hanno a che vedere con il contesto originario.
Ho cercato di documentarmi ed ho scoperto che a supporto di tali atteggiamenti vi è una vera e propria deriva culturale che ha coinvolto grandi pensatori che, ovviamente, si sono schierati contro di essa. Uno per tutti, il grande linguista, fondatore della corrente generativista, Noam Chomsky. Tale “corrente culturale” è conosciuta come cancel culture, che in italiano diventa cultura della cancellazione o cultura del sabotaggio.
Con tale sintagma si indica una moderna forma di ostracismo con la quale si trasforma una persona in bersaglio di esecrazione estromettendolo dai gruppi sociali o professionali, sia sui social media, sia nella quotidianità reale.
L’origine del termine cancel culture lo si fa risalire al 2017 quando fu introdotto da una comunità informale composta preminentemente da afroamericani e stava ad indicare l’atteggiamento di “smettere di dare supporto ad una persona con il boicottaggio o la mancata promozione delle sue attività”.
La morte di George Floyd nel 2020 durante il suo arresto da parte della polizia di Minneapolis ha innescato numerosi episodi di iconoclastia, cioè di spregevole denigrazione, nei confronti di quanto considerato, a torto o a ragione, simbolo di un passato razzista e schiavista. Furono così abbattute diverse statue, tra cui quelle dedicate a Cristoforo Colombo ed a Winston Churchill. Tali episodi, infatti, interessarono particolarmente gli Stati Uniti ed il Regno Unito.
Il 7 luglio 2020 ben 150 intellettuali, tra cui il già citato Noam Chomsky e Salman Rushdie, autore del romanzo I versi satanici per cui fu oggetto di una fatwa (quasi una condanna a morte), hanno pubblicato una lettera aperta –Una lettera sulla giustizia e per un dibattito aperto– per dare un avvertimento autorevole sui pericoli di “una nuova serie di standard morali e schieramenti politici che tendono ad indebolire il dibattito aperto in favore del conformismo ideologico”.
La cancel culture è stata interpretata da più di qualche intellettuale come una degenerazione del politicamente corretto. Per il politicamente corretto, infatti, spesso si rinuncia anche alle proprie radici ed alla propria storia per una malintesa forma di rispetto dell’altro. È solo dell’appena trascorso mese di dicembre 2021 la comunicazione riservata circolata negli uffici della comunità europea di Bruxelles che invitava a non utilizzare, ad esempio, la formula augurale “Buon Natale” per un più politicamente corretto ed adeguatamente asettico “Buone feste”! Oppure la querelle sull’appendere o meno il crocefisso in classe con tutti i vari corollari, quali la letterina a Babbo Natale ed altre attività consimili.
È una forma più o meno velata di censura e/o di auto-censura su contenuti, consuetudini, tradizioni e significati che vengono vissuti ed interpretati, erroneamente, come offensivi verso altre culture o verso particolari gruppi di persone. È buona cosa, nelle mense scolastiche, prevedere un menu alternativo alla carne di maiale per quei ragazzi e bambini che non se ne cibano per motivi religiosi, cosi come si ha rispetto per i celiaci o i vegetariani, ad esempio. Ma non bisogna esagerare e finire con il rispettare la cultura degli altri mancando di rispetto alla nostra cultura.
Il punto focale della questione è da ricercare probabilmente nella mancanza del ricorso allo spirito critico e della consapevolezza della propria cultura nonché nella mancanza di un giusto attaccamento alle proprie radici. Ma senza radici forti l’albero è destinato a non avere uno sviluppo rigoglioso, ma solo ad una sopravvivenza asfittica.
Per dirimere la questione bisogna essere in grado di trovare il giusto equilibrio tra la difesa legittima della propria cultura e le proprie tradizioni con il dovuto rispetto per le culture altre sempre più presenti nelle nostre comunità. Ripensiamo alla frase di Aristotele secondo cui «Solo una mente educata può capire un pensiero diverso dal suo senza la necessità di accettarlo». A vere rispetto per un diverso modo di vedere una stessa cosa, per un punto di vista diverso, non deve voler dire farlo proprio, ma semplicemente prenderlo in considerazione e rifletterci sopra. Accettarlo o rifiutarlo diventa, quindi, una scelta personale che attiene alla sensibilità ed al retroterra culturale di ognuno. Rimanere nella propria opinione dopo aver riflettuto e ragionato, magari con un confronto, su un punto di vista diverso, non vuol dire che, ricordando la già citata frase di Lowell, essere degli imbecilli, vuol semplicemente dire non essere d’accordo.
È solo un fatto culturale con la sua banalità e le sue difficoltà. Per affrontare efficacemente ogni singola questione senza cadere nell’assolutizzazione o nel cambiare bandiera in base a come tira il vento c’è la necessità di una solida cultura, per cui la scuola viene chiamata prepotentemente in causa. Non si tratta di inserire una nuova disciplina, ma solo di proporre e di promuovere competenze sociali trasversali. Andrebbero, quindi promosse tutte quelle attività che prevedono e richiedono un confronto ed un fitto scambio di opinioni e di pareri in cui il docente deve limitarsi a garantire l’ordinato fluire degli interventi e la costruttiva partecipazione di tutti. Bisogna favorire l’autostima perché chi ha una corretta autostima è portato ad intervenire quando lo reputa necessario e ad esprimere la sua opinione senza remore e senza nessuna timidezza. Il docente, inoltre, deve guidare i ragazzi sì a dare ed a dire la loro opinione, ma anche a spiegarne il perché ed a suffragarla, quando possibile, con dati di fatto. L’attività dell’argomentare è utile per chi ascolta perché ha gli strumenti per prendere una posizione a sua volta motivata ma anche a chi la propone perché permette a luii di riflettere su quanto sta asserendo.
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