
Riscopriamo l’altruismo
La società dell’informazione e della conoscenza, causa ed effetto della dilagante ed iper-pervasiva tecnologia informatica, ha cambiato radicalmente il modo di approcciarsi alle notizie. Il tempo dedicato alla riflessione è stato sempre più compresso ed ora è appannaggio soltanto di una sparuta cerchia di persone ostinate nel puntare sulla razionalità e sul buon senso supportato e suffragato dalla riflessione su quanto letto o ascoltato. Quanto sta succedendo con la pandemia da Covid-19 ne è un ulteriore e chiaro esempio. La rete mette a disposizione miriadi di informazioni contrastanti tra loro, la stragrande parte di esse non ha nessun supporto scientifico o sono vere e proprie “bufale”. Ciò nonostante, però, rimbalzano sulla rete fino a diventare “verità”, almeno per coloro che si fermano a leggere distrattamente e considerarle vere in quanto non hanno voglia e/o mezzi culturali per appurarne la veridicità. In altri termini, non si fermano a riflettere un attimo su cosa letto. Ma la riflessione richiede tempi distesi in netta antitesi, quindi, con la società attuale che fa della velocità il suo totem, idolatrandola ed inseguendola oltre ogni limite.
Un particolare effetto della comunicazione in grado di rivolgersi ad un gran numero di persone contemporaneamente è quello dell’assolutizzazione dei fenomeni. È una trappola in cui è caduto anche il grande Umberto Eco quando ebbe a dire che internet è estremamente negativo in quanto ha dato diritto di parola anche agli imbecilli. In effetti, la rete mette sullo stesso piano il grande scienziato e l’arcinota casalinga di Voghera o i cosiddetti leoni da tastiera. Mi permetto di concordare, ma solo fino ad un certo punto, con l’affermazione di Umberto Eco. Per me, infatti, la rete ha anche una leggera connotazione di positività proprio perché permette a chiunque di esprimere il proprio pensiero. Sta al lettore mettersi nella condizione di separare “il seme dalla pula”. I social sono solo degli strumenti il cui uso dipende, sì, dalla loro intima natura, ma soprattutto da chi li usa e da come li usa. Gli effetti, infine, dipendono dall’approccio dell’utente finale e dalla capacità critica messa in atto. Quanti messaggi cestiniamo senza averli neanche aperti e men che meno letti? D’altro canto, anche un imbecille, per ricorrere al termine usato da Umberto Eco, può dire qualche cosa che può servire da spunto di riflessione. Il che la reputo una cosa positiva.
Dicevo dell’effetto dell’assolutizzazione, cioè di quel fenomeno che porta a credere, ed a far credere, che quel singolo episodio possa pienamente svelare un’epoca così complessa, come quella che stiamo vivendo. La tendenza a generalizzare è il vero, amaro, frutto di questa comunicazione veloce. Qualsiasi episodio è privo di valori universali, ma è sempre relativo alla rappresentazione che abbiamo del mondo in quel particolare contesto temporale e sociale e del particolare momento della nostra vita che ci troviamo ad affrontare. Il “senso comune” è un concetto dinamico, che cambia e si modifica con il tempo. Esso è frutto della società in cui ci si trova a vivere. È proprio il cambiamento del senso comune che si verifica nel tempo che rende difficile o comunque impegnativa la comunicazione tra generazioni, anche se anagraficamente molto vicine. La ragione sta nel fatto che la sostanza della comunicazione e la sua interpretazione poggiano su valutazioni e su paradigmi che possono essere, e spesso lo sono, diversi in tempi ed in contesti diversi.
La comunicazione veloce, quale nella maggior parte dei casi è quella attuale, avviene quasi sempre per slogan, appannaggio, per quanto detto, di persone poco aduse alla riflessione, ed ha portato all’egemonizzazione di una cultura che tende a combattere tutti quei valori positivi che, molto faticosamente, si erano affermati nella seconda metà del secolo scorso. La comunicazione veloce non ammette i distinguo e le eccezioni, non permette di fermarsi a ragionare sui particolari. Per essere tale deve, per forze di cose, procedere con tagli netti ed affermazioni categoriche, senza dare possibilità di replica. E l’assolutizzazione ha investito anche il modo con cui ci rapportiamo verso i nostri simili. Tendiamo sempre di più a categorizzare e ad etichettare anche le persone con cui entriamo in contatto diretto o indiretto.
La crisi economica di inizio millennio ha dato il suo indubbio contributo a tale situazione ingenerando sentimenti di rabbia, delusione, intolleranza, rancore, disfattismo, cinismo. Ma ancora più interessante sarebbe indagare sulle cause, più o meno nascoste o palesi e che vanno al di là della contingenza della crisi economica o pandemica.
Questi sentimenti negativi stanno, ovviamente, erodendo le virtù ad essi contrapposte a causa del contesto socio-economico prima menzionato. Oggi, infatti, una significativa percentuale di opinione pubblica quasi si vanta di essere contro l’accoglienza, la comprensione, la solidarietà, ne fa una bandiera anche politica. Interi partiti sono fondati su tali sentimenti rancorosi ed escludenti. Il sentimento che sta alla base di tutta questa situazione è senza dubbio l’egoismo, la chiusura in sé stessi.
Questa la situazione. Ma allora che si può fare? Le persone di buona volontà, le persone che vogliono dare un senso escatologico e trascendente alla propria vita, le persone che con il loro comportamento vogliono proiettarsi in un futuro migliore devono essere più coerenti e più determinate nel fare quello che credono giusto. Non è certo facile, perché essere egoista è molto più comodo ed agevole, viene quasi spontaneo. L’egoismo, la difesa del sé, è insito nella natura umana e negli esseri viventi in generale. Basti pensare all’istinto di sopravvivenza. Essere altruisti, volere e fare il bene dell’altro è, invece, una conquista culturale e comportamentale che costa fatica. La differenza sta nel vuoto che lascia l’egoismo contrapposto alla piacevole sensazione di gratificazione e di serenità che dà una vita che abbia un senso, che abbia un fine alto a cui tendere.
Bisogna, però, stare attenti a non cadere nella trappola dell’apparenza, ma scendere al fondo della sostanza. In questo può aiutare, e molto, il volontariato organizzato e strutturato. È facile lavarsi le mani e la coscienza facendo una telefonata “solidale” ad uno dei numerosi numeri fissi proposti dai media. È altrettanto facile aderire alle raccolte fondi con cadenza mensile, tipo adotta un bambino a distanza, oppure finanzia la ricerca. Tutto il rispetto per queste attività importanti e benemerite, sempre necessarie. Ma a livello individuale non basta, non possiamo lavarci la coscienza con qualche euro, quasi si trattasse di una lavanderia a gettone. L’impegno personale deve essere quotidiano, costante e coinvolgente. Deve incidere su tutte le relazioni che individuano e caratterizzano una persona. Bisogna avere questo coraggio e questo coraggio lo dobbiamo promuovere e mettere in pratica tra la gente, sui posti di lavoro ed in tutte le occasioni di ritrovo in modo che l’altruismo e la solidarietà divengano valori condivisi ed entrino a far parte del bagaglio culturale acquisito da spendere, poi, per tutto l’arco della vita.
Abbiamo precedentemente affermato che l’altruismo è un fatto culturale dal che si evince che il percorso da attivare deve essere primariamente a carico delle due agenzie educative per antonomasia: la famiglia e la scuola. Proprio la scuola, infatti, è l’istituzione deputata a trasmettere ed a creare cultura.
In questi ultimi anni la scuola è stata caricata di compiti sempre più gravosi e sempre più complessi per cui si rende necessario fare un po’ di ordine ed avere il coraggio di tralasciare qualcosa per portarne avanti qualche altra reputata maggiormente importante ed essenziale. Se si intende la scuola come semplice strumento per trasmettere e creare conoscenze, questo articolo e queste modeste riflessioni non hanno ragion d’essere, ma se si intende la scuola come strumento atto a perseguire il pieno sviluppo della persona umana allora è bene cominciare a fare delle scelte che potrebbero anche essere radicali. Lo stesso art. 3 della Costituzione, da cui è stata tratta la citazione appena riportata, prevede subito dopo l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Ma partecipare vuol dire far parte di un gruppo, vuol dire condividere con altri il proprio impegno.
L’altruismo non si insegna come fosse una qualsivoglia disciplina. Non è pensabile prevedere una o più ore settimanali di “altruismo”. Questo sentimento, come qualunque altro sentimento, lo si deve vivere e lo si deve imparare dalla vita e dall’esempio. In classe sono quindi da privilegiare quelle metodologie che promuovono le relazioni umane e la collaborazione. Sarebbe molto opportuno bandire la concorrenzialità per individuare il primo della classe perché di primo della classe ce ne può essere uno solo, tutti gli altri saranno esclusi. Si tratterebbe, quindi, di una metodologia e di un approccio tendenzialmente volto all’esclusione. Promuovere i rapporti umani, invece, per forza di cose, si muove nella direzione dell’apertura all’altro perché i rapporti mettono in relazione dialogica e biunivoca le persone, perché permettono ad un soggetto di aprirsi ma anche di entrare nel mondo interiore dell’altro.
Molte volte, quando alla scuola si chiede di più, ci si trincera dietro l’assenza o l’inadeguatezza delle risorse economiche o, ancor più spesso, delle risorse strutturali ed umane. Altre volte, invece, ci facciamo scudo con la mancanza di tempo. Per molte cose, però, si tratta solo di modificare l’organizzazione delle attività, di fare quanto si è sempre fatto ma farlo in modo diverso. In questo specifico caso, si tratta solo di attivare, di promuovere e di privilegiare tutte quelle metodologie basate non sull’individuo, bensì sul gruppo: peer education, cooperative learning, didattica collaborativa, …
Un grande aiuto può venire dal service learning. Questo approccio pedagogico è strumentale, oltre che al lavoro di gruppo, anche a favorire l’apertura della scuola verso l’esterno, verso la comunità di riferimento dell’istituzione scolastica. Il dover riflettere sui problemi che ci circondano costituisce un passo importante verso l’altro che si concretizza nella ricerca della soluzione più efficace.
Bisogna vivificare il modo di intendere la scuola, bisogna uscire da logiche che sono ormai superate dai tempi, bisogna abbandonare una volta per sempre la stantia metodica trasmissiva basata sul libro di testo per abbracciare con convinzione e consapevolezza una didattica viva perché basata sull’uomo.
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