Il testamento morale

Il testamento morale

19 Dicembre 2021 0 Di giuseppe perpiglia

Nove vittime è il bilancio di una grande esplosione avvenuta il 12 dicembre 2021 per una fuga di gas da tubature probabilmente tranciatesi a causa di una frana lenta che sta facendo scivolare il paese verso valle. Ravanusa è un paese di quasi 11.000 abitanti in provincia di Agrigento. Non troppo piccolo, ma nemmeno tanto grande. I rapporti umani e le relazioni personali possono ancora essere coltivati in modo efficace. Ha conosciuto ed accettato il benessere e la modernità rappresentato dal gas di città da diversi decenni. Ma questa forma di progresso oggi l’ha pagata a caro prezzo. Quattro palazzine distrutte ed altre quattro sventrate dall’esplosione di una grande bolla di gas formatasi nel sottosuolo e che ha colpito numerose famiglie. Oltre alle vittime, circa un centinaio di persone hanno visto andare in fumo, letteralmente, le loro vite, i loro ricordi, le loro speranze, i loro sogni.

Il tutto, secondo le prime ipotesi investigative, per colpa di chi avrebbe dovuto controllare e non lo ha fatto o lo avrebbe fatto male. Molti abitanti della zona hanno riferito di una puzza di gas persistente da diversi giorni ed a nulla o quasi sono valse le numerose telefonate fatti a vari enti. Alcuni giorni prima, in effetti, erano stati fatti dei controlli sulla cui efficacia testimoniano le tragiche immagini proposte e riproposte dai mass media.

Le cause di questa tragedia sarebbero da ricercare, quindi, ancora una volta, nella ricerca ostinata e continua del profitto. In questi casi mi viene sempre in mente quella frase che Fabrizio de Andrè canta nella sua “Via del Campo”: «Dai diamanti non nasce niente, dai diamanti nascono i fiori». È l’eterna diatriba tra essere ed avere. Il profitto fine a sé stesso contro la voglia di fare e di essere per creare un futuro, per dare sostanza ai propri sogni.

In questa sciagura è spuntato, seppure a ben caro prezzo, un fiore che ogni docente dovrebbe conservare gelosamente tra le pagine del libro della propria vita professionale e non e che dovrebbe guardare e richiamare alla memoria ogni volta che entra in classe, ogni volta che inizia un nuovo anno scolastico.

Tra le nove vittime di questa tragedia, per certi versi annunciata, è da annoverare anche un professore da poco in pensione, Pietro Carmìna, già docente di Storia e Filosofia presso un liceo di Canicattì, sempre in provincia di Agrigento. Il professore, in occasione del suo pensionamento, scrisse una lettera ai suoi alunni, a tutti i suoi alunni, per spronarli a “mordere la vita”.

Molti sono convinti che la scuola debba solo occuparsi di nozioni, di contenuti. Personalmente penso che sarebbe molto limitativo un orizzonte fatto solo di nozioni, per quanto ben confezionate possano essere. La scuola non può e non deve sostituirsi alla famiglia. La famiglia dovrebbe abbandonare una volta per tutte il venefico vezzo della delega –professore, ci pensi lei– ed assumersi le proprie responsabilità.

La scuola, d’altro canto, deve prendere consapevolezza che ha un ruolo importante nella crescita umana dei ragazzi che le vengono affidati. La scuola rappresenta la cerniera tra il singolo e la società, è il cardine su cui ruota, bene o male, il passaggio dalla fanciullezza all’adultità, il problematico passaggio da figlio a cittadino.

La lettera del professore Carmìna, può, a buon diritto, essere considerata un testamento morale, un faro, una linea guida che i docenti dovrebbero apprezzare e riflettere in tutta la sua valenza e profondità. Non starò qui a fare l’esegesi del documento perché non ne sono capace e, quindi, risulterebbe riduttivo, e non addirittura offensivo, nei confronti della profondità di pensiero e di sentimenti del professore Carmìna. Riporto solo le impressioni che mi hanno suscitato alcuni passi.

Mi ha colpito molto la descrizione della nostalgia nel vedersi costretto a lasciare i “suoi” ragazzi, mettendo in risalto i tratti caratteristici di molti di loro. Di quanti ragazzi che ho avuto davanti non sapevo nulla, se non il nome ed il numero sul registro? È una cosa che un buon docente non dovrebbe mai permettere che accada: fermarsi all’involucro senza indagare sul contenuto. Eppure mi è capitato!

Quando il professore Carmìna dice che ha molto imparato dai suoi alunni non è retorica ma sta solo dicendo una grande verità. Forse, presi dagli impegni burocratici non ce ne rendiamo conto, ma abbiamo molto imparato e tanto ancora abbiamo da imparare dai nostri ragazzi. In una classe si instaurano rapporti umani e relazioni personali in cui ogni soggetto influenza e viene influenzato dagli altri. Ed il docente non può essere o stare al di fuori di tali dinamiche.

Il punto più forte e più coinvolgente è sicuramente la potente quanto profonda lezione di vita racchiusa in poche parole: «Usate le parole per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha». In modo semplice, quasi disarmante e disarmato, invita alla solidarietà ed all’apertura verso l’altro, chiunque esso sia. E questo viene rimarcato nel passo in cui invita a rifuggire l’indifferenza, grande problema di questa nostra, presunta, modernità. Mi viene in mente don Lorenzo Milani ed il suo ormai famoso “I care”.

L’ultimo invito, quasi un corollario a quanto affermato prima, è di essere protagonisti della storia, di “mordere la vita”, di non adattarsi, di battersi per realizzare i propri sogni.

Di seguito riporto la lettera del professore Carmìna nella sua interezza perché vale veramente la pena di leggerla e rileggerla più volte, magari in classe con i ragazzi, anche quelli che frequentano la scuola secondaria di primo grado.

Dal sito www.tgcom24.mediaset.it pubblicato il 13 DICEMBRE 2021 10:15

Quando era andato in pensione, il docente di storia e filosofia Pietro Carmìna, una delle vittime dell’esplosione di Ravanusa, aveva scritto una lettera ai suoi studenti. Lo scritto sta ora rimbalzando sui social come testamento morale. Di seguito il contenuto.

Ai miei ragazzi, di ieri e di oggi. Ho appena chiuso il registro di classe. Per l’ultima volta. In attesa che la campanella liberatoria li faccia sciamare verso le vacanze, mi ritrovo a guardare i ragazzi che ho davanti. E, come in un fantasioso caleidoscopio, dietro i loro volti ne scorgo altri, tantissimi, centinaia, tutti quelli che ho incrociato in questi ultimi miei 43 anni.

Di parecchi rammento tutto, anche i sorrisi, le battute, i gesti di disappunto, il modo di giustificarsi, di confidarsi, di comunicare gioie e dolori, di altri, molti in verità, solo il viso o il nome. Con alcuni persistono, vivi, rapporti amichevoli, ma il trascorrere del tempo e la lontananza hanno affievolito o interrotto, ahimè, quelli con tantissimi altri. Sono arrivato al capolinea ed il magone più lancinante sta non tanto nell’essere iscritto di diritto al club degli anziani, quanto nel separarmi da questi ragazzi. A tutti credo aver dato tutto quello che ho potuto, ma credo anche di avere ricevuto di più, molto di più.

Vorrei salutarvi tutti, quelli che incontro per strada, quelli che mi siete amici sui social, e, tramite voi, anche tutti gli altri, tutti, ed abbracciarvi ovunque voi siate. Vorrei che sapeste che una delle mie felicità consiste nel sentirmi ricordato; una delle mie gioie è sapervi affermati nella vita; una delle mie soddisfazioni la coscienza e la consapevolezza di avere tentato di insegnarvi che la vita non è un gratta e vinci: la vita si abbranca, si azzanna, si conquista.

Ho imparato qualcosa da ciascuno di voi, e da tutti la gioia di vivere, la vitalità, il dinamismo, l’’entusiasmo, la voglia di lottare. Gli anni del liceo, per quanto belli, non sempre sono felici né facili, specialmente quando avete dovuto fare i conti con un prof. che certe mattine raggiungeva livelli eccelsi di scontrosità e di asprezza, insomma… rompeva alla grande. Ma lo faceva di proposito, nel tentativo di spianarvi la strada, evidenziandone ostacoli e difficoltà.

Vi chiedo scusa se qualche volta non ho prestato il giusto ascolto, se non sono riuscito a stabilire la giusta empatia, se ho giudicato solo le apparenze, se ho deluso le aspettative, se ho dato più valore ai risultati e trascurato il percorso ed i progressi, se, in una parola, non sono stato all’altezza delle vostre aspettative e non sono riuscito a farvi percepire che per me siete stati e siete importanti, perché avete costituito la mia seconda famiglia.

Un’ultima raccomandazione, mentre il mio pullman si sta fermando: usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha; non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi: infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non “adattatevi”, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa: voi non siete il futuro, siete il presente.

Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare, non state tutto il santo giorno incollati a cazzeggiare con l’iPhone. Leggete, invece, viaggiate, siate curiosi (rammentate il coniglio del mondo di sofia?). Io ho fatto, o meglio, ho cercato di fare la mia parte, ora tocca a voi.

Le nostre strade si dividono, ma ricordate che avete fatto parte del mio vissuto, della mia storia e, quindi, della mia vita. Per questo, anche ora che siete grandi, per un consiglio, per una delusione, o semplicemente per una risata, un ricordo o un saluto, io ci sono e ci sarò. Sapete dove trovarmi.

Ecco. Il pullman è arrivato. Io mi fermo qui.

A voi, buon viaggio.

Pietro Carmìna

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