
L’effetto Flynn
Il professore James Flynn, dell’università neozelandese di Dunedin, ha legato il suo nome ad uno studio del 1987 pubblicato sul Psycological Bulletin, in cui metteva a confronto i risultati ottenuti dalla somministrazione dei test di intelligenza ad un campione di bambini nel 1972 rispetto ad altri risultati ottenuti nel 1947. Dal confronto è emerso che il Q.I. medio era aumentato di ben 8 punti. Per trovare conferma ai suoi dati, il professore Flynn ha scritto a 165 studiosi di tutto il mondo, avendo conferma dei suoi studi. Questo fenomeno, ormai sostanzialmente accettato dalla comunità scientifica, prende il nome di effetto Flynn dal suo scopritore e consiste nell’incremento del Q.I. medio da una generazione alla successiva.
Per completezza di informazione, ricordiamo che il quoziente d’intelligenza o quoziente intellettivo (QI), è un punteggio, ottenuto tramite uno dei molti test standardizzati, che si prefigge lo scopo di misurare o valutare l’intelligenza, ovvero lo sviluppo cognitivo dell’individuo. (da Wikipedia).
Quali potrebbero essere i fattori ambientali in grado di provocare un incremento dell’intelligenza media non è ancora sicuro, ma molti concordano sulla migliore nutrizione, su sistemi di istruzione e di conoscenza più efficaci, ma anche su sistemi più precisi e sofisticati di valutazione delle prove sperimentali. Alcuni autori arrivano ad affermare che videogiochi, computer e televisione siano in grado di aumentare l’intelligenza visiva e spaziale.
In base all’effetto Flynn il quoziente intellettivo potrebbe aumentare tra i 5 ed i 25 punti passando da una generazione alla successiva. Negli anni del secondo dopoguerra si è avuta la scolarizzazione di massa e questo, per rimanere in Italia, non può non aver influito sulle capacità intellettive delle generazioni interessate. Se è vero, come è vero, che l’intelligenza dipende anche e soprattutto dalle connessioni (sinapsi) che si vengono a stabilire tra le cellule nervose e se è vero, come è vero, che queste possono essere modificate e facilitate da stimoli esterni, risulta chiaro come un maggior numero ed una maggiore varietà di stimoli possano aver contribuito, e non poco, all’aumento del Q.I. medio.
Da ricerche effettuate in questi ultimi anni sembra che l’effetto Flynn si sia prima rallentato per poi addirittura invertirsi. Infatti, sembra che il Q.I. medio tenda a diminuire, almeno nei Paesi più sviluppati.
Nei Paesi in via di sviluppo, invece, permane la su tendenza all’incremento. Questo comporta, in tempi più o meno brevi, il raggiungimento di un sostanziale equilibrio a livello mondiale.
Ma quali sono le ipotesi per spiegare la regressione del Q.I. nei Paesi ricchi?
Secondo alcuni studiosi il motivo sarebbe da ricercarsi nell’uso sempre più massiccio e pervasivo delle nuove tecnologie, in special modo quelle che si occupano di comunicazione sociale. Quando si comunica tramite SMS, WhatsApp, Tweeter, Instagram, a cui ultimamente si è aggiunto TikTok, non c’è tempo per pensare, per riflettere, per rileggere quanto digitato. Bisogna fare presto! Questo comporta la necessità di produrre frasi semplici ed essenziali. Invece di ricercare il termine più opportuno ed appropriato, di dare alla frase la forma più corretta, si prende semplicemente il termine più comodo, quello più frequente, donando alla frase una forma eccessivamente scarna ed immediata. Viene data la precedenza alle sigle (cmq, xkè, …), il tutto condito con emoticon a cui affidare il compito di veicolare le nostre emozioni e le nostre sensazioni.
Il lessico ed il patrimonio di vocaboli si sta assottigliando sempre più il che esplica i suoi effetti negativi anche sulle relazioni umane. Non avendo un elevato, o quanto meno adeguato, numero di vocaboli di cui disporre, diventa difficile esprimere compiutamente le nostre emozioni così come i nostri pensieri.
Negli anni ’50 del secolo scorso, don Lorenzo Milani metteva in guardia sugli effetti della povertà culturale e lessicale anche sul processo di democratizzazione del Paese: «Fino a quando il padrone conoscerà 1.000 parole e l’operario soltanto 100, questi sarà sempre schiavo del primo». Non essendo in grado di avere e di manifestare un pensiero critico, le nuove generazioni saranno facili prede di manipolatori e di imbonitori che, come il pifferaio magico, le guideranno verso i propri fini e non già verso il bene comune. Saranno individui alla mercè di gente di pochi scrupoli che troveranno e trarranno forza dalla debolezza culturale delle proprie vittime. Tutte le dittature hanno impresso il loro marchio sul rispettivo sistema di istruzione per indirizzare le menti verso un pensiero unico e totalizzante in modo da comandare quanto più a lungo possibile ed a loro piacimento.
Sono già molte le avvisaglie anche nella nostra società, sia a livello politico che sociale.
È prassi comune in politica, e non da ora, fare promesse ben sapendo di non poterle mantenere. Fino a qualche decennio fa, però, questo atteggiamento non certo etico, si accompagnava ad una qualche idea progettuale sulla quale confrontarsi, oggi, invece, vige solo la politica del contro, del fango da gettare addosso all’avversario. Si cerca un nemico su cui lanciarsi a spron battuto per raccogliere consensi. Si fa leva sulla ormai cronica situazione di crisi e di disagio per parlare alla pancia degli elettori. Le tanto vituperate ideologie non esistono più, ma ci si comincia a chiedere se sia veramente un bene. I classici schieramenti politici -destra, centro e sinistra- hanno perso le connotazioni che li hanno contraddistinti sin dal loro nascere. I partiti moderni nascono e si coagulano attorno ad un singolo individuo dotato di carisma e che sa comunicare, nel senso più ampio del termine. Per carità cristiana evito di fare esempi che ognuno può fare.
In tutto questo sfascio etico, culturale e sociale cosa può fare la scuola? Può e deve fare quello per cui è nata e quello che le assegna la Costituzione: perseguire il pieno sviluppo della persona umana! Ma, in concreto, cosa vuol dire questa frase? Vuol dire che, come ci insegnano i grandi pedagogisti, dobbiamo aiutare il ragazzo ad essere uomo, a ragionare con la propria testa, a crearsi ed a potenziare uno spirito critico che gli permetta di prendere decisioni ponderate, frutto di conoscenza e di riflessione.
È, questa, un’ulteriore occasione per mettere in giusta luce la ormai annosa contrapposizione tra conoscenze e competenze. La finalità ultima del sistema di istruzione deve essere dare ai ragazzi la capacità di scelta. Per scegliere, però, bisogna conoscere. La conoscenza come tale non deve essere il fine, bensì il mezzo inalienabile per raggiunger un obiettivo molto più alto ed ambizioso.
Sono ancora troppi i docenti legati alle sole conoscenze. Sono ancora troppi i docenti che preferiscono riempire otri vuoti ed avere una classe di soldatini di piombo, tutti allineati e coperti, tutti “ben pensanti” se il pensiero è quello unico indiato dal docente.
Sarebbe molto più gratificante ed efficace per il docente, per gli alunni e per la società se ogni docente entrasse in classe con la consapevolezza di trovarsi tra persone e con l’umiltà di mettersi in posizione di ascolto perché da tali persone c’è sempre molto da imparare.
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