Un ospedale per sani

Un ospedale per sani

17 Maggio 2021 0 Di giuseppe perpiglia

Se si perde i ragazzi difficili, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. È, questa, una delle tante frasi lapidarie di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana; una frase tante volte ascoltata. Sarebbe forse meglio dire “sentita”, un insieme di oscillazioni sonore percepite dal nostro orecchio ma che non hanno risuonato nel nostro animo. Che non hanno modificato e nemmeno intaccato il nostro modo di agire.

La tanto acclamata scuola inclusiva troppo spesso rimane sulla carta, non viene messa in pratica nei suoi principi essenziali e fondamentali.

I dati pubblicati dalla CGIA di Mestre mostrano una realtà che conferma questa affermazione. La CGIA (Confederazione Generale Italiana dell’Artigianato) ha rilevato, infatti, la consistenza numerica di due fenomeni che hanno un grande impatto sull’intera società e sul futuro stesso del nostro Paese. Nell’anno 2018 sono stati ben 60.000 i giovani, diplomati e laureati, che hanno preferito abbandonare l’Italia per cercare una realizzazione professionale ed umana in altre nazioni, europee ed extra-europee. È il fenomeno sociale noto come fuga di cervelli.  Questo porta ad un impoverimento del nostro capitale sociale, ma anche del nostro capitale economico in senso stretto. Ogni diplomato e laureato per lo Stato rappresenta un investimento, si spende molto, anche se forse male, per la loro formazione con la speranza di avere un ritorno in termini di produttività economica e sociale, appunto. Con l’emigrazione di un così elevato numero di persone si registra una perdita secca a favore di altre nazioni che possono, così, usufruire di maestranze formate a costo zero. Gli altri Stati, evidentemente, potendo offrire molti più posti di lavoro, ed anche più remunerativi, sono sicuramente in una situazione socio-economica migliore della nostra.

Nella poco onorevole classifica della fuga di cervelli l’Italia occupa il terzo posto tra i 19 Paesi dell’area euro, subito dopo Malta e Spagna.

L’altro fenomeno sociale cui si è accennato è l’abbandono scolastico. Ogni anno, infatti, sempre in base ai dati pubblicati dalla CGIA di Mestre, sono 600.000 i ragazzi tra i 19 ed i 24 anni che abbandonano anzitempo la scuola. Anche questo comporta una perdita secca per le casse dello Stato. Anzi, in questo caso la perdita è doppia perché poi bisogna provvedere al sostentamento di questa massa enorme di giovani che, verosimilmente, non riusciranno a trovare un posto di lavoro, se non qualche attività saltuaria e sottopagata, magari anche in nero.

La disaggregazione dei dati nazionali a livello regionale ci dice che l’abbandono raggiunge il massimo in Sardegna con il 23% degli studenti che abbandona la scuola prima di aver conseguito un titolo di studio, seguita dalla Sicilia con il 22,1% e dalla Calabria, in cui l’abbandono scolastico supera di poco il 20%. Non è certo un caso perché tale fenomeno è legato a fattori socio-economici particolarmente rilevanti in queste tre regioni. Infatti, sempre la CGIA, ci dice che tra i fattori che incidono maggiormente sulla scelta di abbandonare la scuola vi sono ragioni sociali, culturali ed economiche. Chi proviene da ambienti svantaggiati e famiglie con basso livello di istruzione ha maggiori probabilità di abbandonare la scuola.

Una volta abbandonata la scuola, la maggior parte di essi entra nel mondo dei NEET, cioè quei giovani Not in Education, Employment or Training, sarebbe a dire senza scuola, senza lavoro e non inserito in alcun corso di formazione o aggiornamento professionale.

In Italia il fenomeno sociale dei NEET, che interessa i giovani di età compresa tra i 15 ed i 29 anni, tocca punte altissime, infatti, si parla del 24,1%, il che corrisponde a circa un ragazzo su quattro. È facile capire come questa situazione rappresenti terreno fertile per devianze di diverso tipo.

I motivi di tale deriva sono molteplici e tra i soggetti coinvolti dobbiamo annoverare anche la scuola. In Italia, infatti, i principali indicatori dell’istruzione e della formazione si mantengono significativamente al di sotto della media europea. Sicuramente è comodo addossare la colpa ad altri fattori, altrettanto sicuramente presenti, quali la mancanza di lavoro e le condizioni socio-economiche non sempre, o quasi mai, adeguate, ma se vogliamo fare una riflessione seria e critica, ogni soggetto coinvolto, e la scuola lo è, deve recitare il proprio mea culpa.

La scuola deve essere più incisiva e più coinvolgente, deve essere più vicina alle esigenze ed alle aspettative dei ragazzi se vuole veramente essere inclusiva. Deve connotarsi non più e non solo come scuola delle nozioni e della teoria, ma come scuola di vita. Deve aprire le sue porte alla comunità di riferimento e facilitare un processo osmotico bidirezionale.

Non è più tempo di rimanere ancorati, se non nella forma sicuramente nella sostanza, al programma ed ai libri di testo che cominciano a puzzare di muffa e di stantio.

La scuola, almeno in quella sua parte che vuole cambiare ed aprirsi al futuro, deve avere il coraggio di progettare attività didattiche e formative, non solo per intercettare i fondi a disposizione degli istituti scolastici, ma per rispondere a specifiche esigenze del territorio e dei singoli studenti. Questo comporta la necessità di un ascolto attivo dell’uno e degli altri. Comporta liberarsi da preconcetti e da visioni standardizzate per abbracciare, senza indugio, un nuovo paradigma conoscitivo e relazionale. Bisogna che la scuola abbandoni definitivamente, tanto nella forma quanto nella sostanza, il paradigma trasmissivo di nozioni e di informazioni slegate dal contesto di vita dei ragazzi per adottare tutti quegli strumenti che permettono ai ragazzi stessi di sviluppare il senso critico, di elevare la riflessione a forma mentis per potersi orientare in questa società che propina una massa enorme di pseudo-informazioni e di vere e proprie fake news.

La scuola deve acquisire piena e completa consapevolezza del suo ruolo politico, nel senso originario del termine di prendersi cura della polis. Prendersi cura della polis vuol dire anche prendersi cura di ogni singolo cittadino che gli viene affidato, di aiutarlo nel suo peculiare percorso di crescita “rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” come recita l’art. 2 della Costituzione.

Ma non basta dare un servizio standard, per quanto di qualità. Penso ad un’altra frase di don Lorenzo Milani: “Non c’è nulla di più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. Ogni ragazzo ha una sua storia e si muove, o vorrebbe muoversi, verso il “suo” futuro. Ne consegue che il docente, come azione propedeutica al suo lavoro, dovrebbe conoscere bene tanto il passato quanto il futuro di ogni ragazzo per eliminare gli ostacoli e permetterne il pieno sviluppo per fare in modo che possa inserirsi in modo efficace e proficuo, per sé e per la società, nel contesto sociale in cui si troverà a vivere.

Certo è che la scuola per poter raggiungere risultati efficaci in un tempo accettabilmente breve, dovrebbe lavorare in un ambiente collaborativo, un ambiente ecologico dove ogni soggetto metta a disposizione strutture, risorse e competenze per raggiungere il fine condiviso del miglioramento della comunità.

Il fatto di essere lasciata da sola, però, non deve rappresentare un alibi all’immobilismo e ad un’attività ancorata a vecchi schemi. Sono, infatti, ancora molti i ragazzi che, per quanto non respinti, in tutti i sensi, dalla scuola, ma nemmeno sostanzialmente accettati, vengono mandati alle classi successive senza avere acquisito le competenze necessarie e senza aver raggiunto quegli obiettivi che pure sono stati elencati e sbandierati nel PTOF e nelle programmazioni annuali dei singoli docenti.

Il corpo docente ha, in alcuni suoi componenti, un atteggiamento ondivago tra un garantismo eccessivo nel concedere la promozione alla classe successiva, ed una didattica che, di fatto, è ancora trasmissiva eludendo l’enunciato dell’articolo 2 della Costituzione.

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