
La legittimazione del docente
Nei bei tempi andati, fare il docente era un punto di arrivo. Rappresentava la conquista di uno status sociale, anche se non certo sul versante economico, anche in quei tempi. Il docente era un punto di riferimento la cui autorevolezza era promossa e rafforzata da un significativo livello di analfabetismo.
La modernità ha scombussolato le carte ed il colpo di grazia è stato inferto dalla cultura di massa, prima, e dalla grande diffusione di internet, poi. Entrambe cose molto buone e necessarie in una società che entrava a piè pari nella modernità.
Il docente ha finito di essere il solo ed unico dispensatore di cultura e di nozioni. I governi hanno cominciato a guardare alla scuola come ad un male necessario e non ad una risorsa strumentale alla crescita del Paese. Della scuola hanno cominciato ad occuparsi soltanto dei suoi costi elevati di cui non riuscivano, e non riescono ancora oggi, a valutarne i frutti per la costruzione di un futuro migliore. I politici di qualsivoglia colore hanno preferito i tagli lineari ad una progettazione seria e lungimirante. I risultati non hanno tardato a concretizzarsi. Si è, infatti, innescato un circolo vizioso in cui ad un trattamento sempre meno adeguato seguiva un calo motivazionale che giustificava e rafforzava la scarsa considerazione patita dal docente. A farne le spese è stato tutto il sistema di istruzione e, di conseguenza, tutto il Paese che oggi si trova ad importare know how, cioè competenze e tecnologie, e ad esportare cervelli in una logica perversa. Basterebbe spendere le risorse per le tecnologie estere in favore dei tanti bravi ricercatori di casa nostra per non dover dipendere da niente e da nessuno.
Alcuni esempi, tra i tanti possibili, di cosa intendo dire. L’onorevole Renato Brunetta, in veste di ministro per la Pubblica Amministrazione e per l’Innovazione nel governo Berlusconi dall’8 maggio 2008 al 26 novembre 2011, ebbe a scagliarsi contro i docenti affermando che sono una massa di sfaticati che godono di enormi privilegi, godendo, tra l’altro, di ben tre mesi di ferie.
Il professore Marco Bussetti, laureatosi a 38 anni, nella sua qualità di ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, incarico ricoperto dall’1 giugno 2018 al 5 settembre 2019 nel primo governo Conte, alla domanda di un giornalista che perorava la causa di maggiori fondi alle scuole del Sud, rispose «Altro che fondi, i docenti del Sud devono lavorare di più!»
L’ultima perla riguarda un uomo dei media, tale Sallusti Alessandro, direttore del giornale Libero, che tanto libero ahimè non sembra perché fedele portavoce di un partito ben preciso e di un’ideologia altrettanto precisa. Cosa legittima, ma che non permette di autodefinirsi libero. Il nostro, nel marzo dell’anno 2020, nella sua funzione di opinionista, categoria tanto numerosa quanto improvvisata ed impalpabile, si espresse nei confronti dei docenti definendoli vigliacchi e cialtroni perché scappavano di fronte al Covid. Lasciando da parte la polemica sul fatto che per combattere un qualsiasi nemico, ed uno subdolo come il virus SARS-CoV-2, c’è bisogno di strumenti adeguati che i docenti non avevano, ed in larga parte non hanno neanche ora, questo è un ulteriore attacco qualunquista e sommario al corpo docente che ha dato e continua a dare prova di valore, di grande professionalità e di ancor maggiore dedizione ed attaccamento al proprio ruolo, che va ben oltre il semplice insegnamento disciplinare.
“Sparare sulla Croce Rossa” era un modo di dire utilizzato in passato per indicare l’indegno comportamento di coloro che si approfittavano della loro forza per sopraffare i più deboli e, più in generale, per indicare un comportamento biasimevole. Oggi tale modo di dire potrebbe benissimo essere sostituito da “Sparlare della scuola”. Si tratta, infatti, di un soggetto, non debole ma in condizioni di debolezza, non in grado di difendersi con le stesse armi di chi offende.
La legittimazione del docente è una diretta conseguenza del valore dato all’istruzione. E le parole su questo principio si sprecano. L’articolo 26 della Dichiarazione universali dell’uomo, approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, è così proposto:
- Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito.
- L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
- I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli.
Come si legge nel primo comma, tutti Paesi firmatari si impegnano a seguire direttive ben precise. L’istruzione viene considerata un diritto inalienabile e deve essere gratuita ed impartita fino alle classi “fondamentali”. Nel caso dello Stato Italiano si decretò che fosse gratuita ed obbligatoria fino al conseguimento della licenza media e, comunque, fino al compimento del 14° anno di età. In seguito, tale limite è stato spostato al compimento del 16° anno di età e comunque fino al conseguimento, almeno, di una qualifica triennale. Veniva anche ribadito che l’istruzione superiore dovesse essere accessibile a tutti “sulla base del merito”.
Lo stesso concetto è stato ripreso anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e precisamente nell’art. 2 del Protocollo Addizionale pubblicato il 20 marzo 1952 si può leggere: «Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche».
Anche la Costituzione Italiana, approvata il 27 dicembre 1947 ed entrata in vigore l’1 gennaio 1948, si occupa del diritto all’istruzione, inserendolo tra i valori fondativi della Repubblica. All’istruzione, infatti, vengono dedicati gli articoli 33 e 34. L’articolo 33 recita:
«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato».
Il successivo articolo 34, invece, è così concepito:
«La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze che devono essere attribuite per concorso».
Entrambi gli articoli costituzionali appena visti, però, sono da intendersi posizionati nella cornice di senso e di prospettiva indicata e disegnata dagli articoli 3 e 4. L’articolo 3 afferma:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
La lettura dell’articolo mette in chiara evidenza come la Repubblica si debba impegnare a promuovere un’uguaglianza effettiva e fornire pari opportunità a tutti i cittadini, rimuovendo eventuali ostacoli che dovessero frapporsi tra la crescita e lo sviluppo della persona, nonché la reale e sostanziale libertà del cittadino.
L’articolo 4, però, dopo la proclamazione dei diritti richiama i cittadini all’osservanza dei propri doveri nei confronti del Paese e della comunità quando afferma
«[…] Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie disponibilità e la propria scelta, un’attività od una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
Nel 2015 l’ONU ha pubblicato un documento che impegna i 193 Paesi firmatari a perseguire, per i prossimi 15 anni, e cioè fino al 2030, uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente e delle generazioni future. Il documento è noto come Agenda ONU 2030 e si compone di 17 obiettivi (SDG’s, sustainable development goals) declinati in 169 traguardi (target). L’obiettivo 4 è quello dedicato all’istruzione: Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti.
In ultimo, mi piace ricordare una frase di don Lorenzo Milani presente nel lavoro scritto a più mani “Lettera ad una professoressa” del 1967: «Finché ci sarà un uomo che conosce 1.000 parole ed uno che ne conosce solo 100, questo sarà sempre oppresso dal primo».
La riconquista del nostro ruolo e la nostra legittimazione non può se non partire da noi. La classe docente è stata sempre divisa al suo interno, non è mai riuscita a creare un fronte unico e compatto contro gli attacchi perpetrati contro di essa, attacchi che non sempre erano senza ragione.
Il compito, anzi i compiti, richiesti alla funzione docente nel corso degli ultimi decenni si sono modificati sempre più velocemente, allargandosi a dismisura, richiedendo competenze sempre più ampie e sempre più diversificate. La classe docente, in genere, non ha richiesto e men che meno si è vista fornire una formazione adeguata e, da parte sua, non ha acquisito la necessaria consapevolezza del mutare dei tempi.
Per uscire da questo circolo vizioso e spezzare questa spirale al ribasso diventa necessario che la classe docente si riappropri completamente del suo ruolo e ricostruisca, nel tempo, quel riconoscimento sociale che ha perduto per colpe di altri, ma anche per colpe proprie.
Una delle cause del degrado risiede nello scarso riconoscimento economico, e non si tratta di una mera rivendicazione sindacale. Con gli stipendi riconosciuti alla funzione docente, infatti, si riduce grandemente la possibilità di scelta di professionalità adeguate, dovendosi accontentare di quel che capita. L’insegnamento veniva scelto da coloro che non riuscivano ad entrare nel privato per motivazioni diverse, ma spesso perché reputati non idonei. La scuola rimaneva, quindi, l’ultima spiaggia. E la scuola accoglieva tutti. Oggi, la scuola viene scelta anche perché il mercato del lavoro è alquanto asfittico e perché rappresenta, comunque, un posto sicuro. Il famoso posto fisso tanto amato e bramato da Checco Zalone nel famoso film Quo vado? A favore di una simile scelta, poi, gioca anche il fatto di essere impegnati quasi esclusivamente di mattina ed avere molti, se non tutti, i pomeriggi liberi. In particolare, questa caratteristica ha portato ad un’eccessiva femminilizzazione del corpo docente. L’apporto delle donne, con la loro sensibilità e la loro intelligenza, è basilare in questo campo, ma ci dovrebbe, però, essere un’adeguata componente maschile per fornire un’offerta educativa maggiormente sfaccettata. In questa nostra società che presenta ancora caratteristiche nettamente maschiliste, la donna, anche e soprattutto quella che lavora, deve sopportare praticamente per intero il carico della gestione della vita familiare per cui è più facile preda della semplice conseguenzialità <mi dai poco – ti do poco> in un gioco al ribasso che erode velocemente la motivazione ed annacqua la passione nel proprio lavoro.
I documenti richiesti dalla prassi scolastica, in una tale logica, rivestono il semplice e noioso ruolo di vuoti adempimenti burocratici da assolvere nel più breve tempo possibile e senza coinvolgimento alcuno. Diventano solo tempo sprecato. Se, invece, si cominciasse a metterci l’anima, se si cominciasse a scrivere quello che effettivamente si vive o si vorrebbe vivere, quello che si vede e che si sente, la relazione che si deve stilare finirebbe di essere un semplice documento da immolare sull’altare della burocrazia per divenire una parte della nostra vita professionale e non solo, un pezzo di futuro dei ragazzi che ci vengono affidati.
Non vorrei che le mie riflessioni venisse interpretate come un attacco all’universo femminile, al contrario! L’attacco è rivolto a chi ha voluto ed ha tramato affinché la scuola scadesse a tali livelli, che la scuola fosse semplicemente sopportata e non vista nella sua enorme importanza per la costruzione del bene comune.
Articoli correlati:
- Una scuola alla deriva
- Il bilancio sociale: Introduzione
- A proposito di dispersione
- Insegnare il futuro
- Progetti: sì o no?
- Una scuola giusta
- Il patto di corresponsabilità educativa
- Per un codice etico del docente
- Il potenziamento della competenza emotiva
- Valutazione dell’impatto sociale