
Differenze e disuguaglianze
Il problema delle differenze, del diverso, del noi e degli altri da noi ha sempre caratterizzato la cultura del genere umano. Nelle comunità primitive l’esclusione dell’altro era quasi una necessità dovuta al precario contesto di vita. Il “diverso”, infatti, in special modo se inabile alla caccia o alla difesa dell’accampamento, era un peso per tutta la comunità. Inoltre, stava lentamente nascendo e prendendo corpo il concetto di identità per cui era molto sentito il bisogno di omogeneità. Un po’ quello che oggi succede nel gruppo dei pari tra gli adolescenti. L’uomo primitivo cercava conferme al suo essere persona per cui il diverso era visto come un elemento destabilizzante, un elemento di disturbo da allontanare. Anche nella Grecia classica, fulgido esempio di civiltà per il mondo intero pure a distanza di molti secoli, il problema del diverso veniva affrontato in modo sommario. Si pensi ai neonati spartani che presentavano una qualche deformazione o che erano nati sottopeso, quindi particolarmente gracili, gettati dal monte Taigeto perché inadatti alla guerra.
Questo sentimento di esclusione, seppure per motivi difensivi, è perdurato nelle varie comunità umane e nelle diverse culture anche nei secoli successivi. Nel corso della sua storia, l’uomo ha costruito molti più muri che ponti. Addirittura, l’atteggiamento di chiusura e di esclusione si è andato rafforzando con la costruzione di alte cinte murarie per difendersi dagli attacchi nemici, attività che ha portato ad aumentare ed a potenziare il sentimento di diffidenza verso lo straniero ed il diverso in genere. Ancora oggi, per indicare un pericolo, si usa dire, magari in tono scherzoso, Mamma, li turchi!
Il senso di chiusura nel proprio guscio, la necessità sentita e condivisa di rimanere al sicuro all’interno del proprio guscio, nel proprio gruppo, per quanto allargato possa essere inteso, è ancora molto diffuso anche nella società attuale. Si pensi ai partiti sovranisti e, andando un po’ indietro nel tempo, al principio dell’autarchia che ha caratterizzato il secondo ventennio del secolo scorso in Italia.
Per fortuna qualche cambiamento, verificatosi a livello embrionale già nel medioevo con le confraternite e rafforzatosi nella prima rivoluzione industriale con le società di mutuo soccorso, sta però sempre più caratterizzando la società attuale. Si sta, seppure lentamente e parzialmente, cominciando a prendere consapevolezza che la terra è una e limitata e che ognuno deve tenere conto e rispettare le esigenze altrui. Si comincia a capire che i problemi del singolo sono i problemi di tutti perché incidono sulla vita della comunità, perché promuovono dinamiche che, se lasciate incancrenire, tendono, con un meccanismo a cascata o come le tessere di un domino, ad innescare ed a potenziare un’evoluzione dei rapporti in direzione centrifuga e disgregatrice. E questo quando la finalità del genere umano dovrebbe essere quella della collaborazione universale per innescare, invece, percorsi che portino al bene comune.
Su questo tema si innesta quello della diversità e delle disuguaglianze. Nella nostra Costituzione, nella parte iniziale dedicata ai valori fondativi, viene ribadito il concetto di uguaglianza, intesa come pari dignità (art. 3 … tutti i cittadini hanno pari dignità sociale …), specificando che tutti, indistintamente, debbono avere stessi diritti e stessi doveri. Il problema di fondo è quello relativo all’eventuale trasformazione delle differenze e delle diversità in un pretesto per una sommaria e frettolosa esclusione. Nello stesso articolo si afferma che «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». La Costituzione assegna alla Repubblica il compito di annullare le differenze tra individui e di includere tutti, indistintamente, nell‘organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
La diversità di vedute e la differenza, non solo culturale, sono importanti fattori di crescita individuale e collettiva, ma solo a patto che ci sia la volontà di aprire e di instaurare un confronto aperto e sincero, un confronto che abbia come obiettivo, non quello della prevaricazione e della vittoria sull’altro, ma, al contrario, quello di prendere in considerazione il punto di vista altrui e valutarlo criticamente per costruire una prospettiva nuova e più articolata.
Rimanere ancorati alle proprie convinzioni senza accettare il confronto con gli altri porta solo ad una sterile staticità che tende ad una regressione culturale e comportamentale. Il problema della differenza, della diversità e conseguentemente dell’inclusione è stato anche affrontato da due importanti, seppure diversi, documenti: l’Agenda 2030 del Consiglio d’Europa e l’enciclica di papa Francesco Laudato sì.
L’agenda 2030 si compone di 17 obiettivi suddivisi in 169 traguardi. L’obiettivo 10 ha un titolo molto esplicativo: Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le Nazioni. Nei dieci traguardi in cui è suddiviso tale obiettivo si parla molto di condizioni economiche, ma non solo. Infatti, il traguardo 10.2 recita «Entro il 2030, potenziare e promuovere l’inclusione sociale, economica e politica di tutti, a prescindere da età, sesso, disabilità, razza, etnia, origine, religione, stato economico o altro» ed il successivo traguardo 10.3 potenzia il concetto perché impone di «Assicurare pari opportunità e ridurre le disuguaglianze nei risultati, anche eliminando leggi, politiche e pratiche discriminatorie e promuovendo legislazioni, politiche e azioni appropriate a tale proposito». Non c’è certo bisogno di spiegare che la povertà crea disparità. Ma non solo la povertà economica, anche quella culturale. Don Lorenzo Milani, infatti, diceva che «se il padrone conosce 1.000 parole e tu ne conosci solo 100 sei destinato a rimanere nella tua condizione di servo».
Il Papa, nell’enciclica menzionata, collega ambiente umano, cioè la società, all’ambiente naturale affermando che il degrado dell’uno implica il degrado dell’altro e, viceversa, la cura e l’attenzione all’uno non possono essere disgiunte dalla cura e dall’attenzione dell’altro. Esiste una stretta interconnessione di causa e di effetto tra l’uno e l’altro. Molto diretta e dal significato inequivocabile la frase: «Tanto l’esperienza comune nella vita ordinaria quanto la ricerca scientifica hanno dimostrato che gli effetti più gravi di tutte le aggressioni ambientali li subisce la gente più povera».
A questo punto la domanda nasce spontanea: «Cosa può fare la scuola?». Il sistema scolastico ed ogni singolo docente nella sua ora di lezione dovrebbero mostrare ai ragazzi, con l’insegnamento e con l’esempio, che un mondo diverso e migliore è possibile. Dovrebbero essere, e non solo per questo, costruttori di speranza nel futuro. Dovrebbero far vedere, con dati di fatto e con esempi presi dalla realtà concreta, che l’esclusione è un fatto negativo e non solo per l’escluso. Il sistema scolastico ha ripensato sé stesso a partire dalla legge 517/1977 sull’integrazione delle persone con disabilità abolendo le famose classi differenziali, veri e propri ghetti in cui raccogliere i diversi. Tale processo fu ulteriormente rafforzato dalla legge 104/1992. Il linguaggio dei due testi normativi risentiva pesantemente della cultura fino ad allora dominante, ancorata a concezioni arcaiche. Negli anni successivi, però, ci si è adeguati, anche nel linguaggio, alle nuove concezioni sull’handicap. Oggi, infatti, l’attenzione e gli interventi sono focalizzati sulla persona con un approccio olistico, mentre la disabilità è un fatto a sé stante che non connota più la persona nel suo insieme.
Le disuguaglianze, l’esclusione e le diverse opportunità, però, non vanno a colpire solo le persone con diversa abilità. Nelle nostre scuole, infatti, la giusta e costituzionalmente doverosa attenzione viene dedicata anche ai cosiddetti BES, cioè a tutti coloro che per motivi diversi -contingenti, temporanei o cronici- necessitano di attenzioni particolari perché hanno, appunto, bisogni educativi speciali.
Ma non c’è bisogno di scomodare le norme o rivoluzionarie teorie pedagogiche per promuovere e potenziare sentimenti ed atteggiamenti di inclusione. Bastano solo semplici accortezze dettate dal buon senso e da una corretta dose di spirito critico e di razionalità, il tutto condito da un’immancabile determinazione e passione per il proprio lavoro e la propria missione. Favorire e potenziare il lavoro di gruppo e l’insegnamento cooperativo riconoscendo a tutti l’opportunità, anche pungolandoli quando necessario, di esprimere le proprie idee e già un’ottima palestra di inclusione. Mettere in risalto le competenze di ognuno permette di far nascere e fortificare la consapevolezza che ogni persona è una risorsa per il gruppo. Non tutti possono essere capaci di scrivere un bel tema con riflessioni profonde e significative, qualcun altro, infatti, potrebbe essere molto bravo nel disegno o nelle attività manuali o, ancora portato per le scienze. Sfruttando opportunamente le competenze di ognuno, il gruppo potrà toccare vette precluse al singolo. E questa sarebbe la migliore dimostrazione dei vantaggi legati ad una cultura inclusiva.
Per finire un’ultima chiosa.
In questo campo sarebbe molto opportuno ricorre ad una risorsa spesso sconosciuta o non adeguatamente considerata nel mondo scolastico: il volontariato. Molte associazioni sono dedite proprio all’inclusione in senso più o meno ristretto o ampio. Allora perché non far ricorso a tali associazioni perché portino esperienze reali e vissute in prima persona.
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