
Educare alla cittadinanza
Ho letto con attenzione l’enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” e condivido con voi alcune modeste riflessioni, cercando di curvarle, senza stravolgerle, all’interno della vita scolastica, sia nell’ottica dell’insegnamento, sia nell’ottica dell’apprendimento. Letta dal punto di vista dell’educazione civica, l’enciclica “Fratelli tutti” può essere utilizzata come valida linea guida che va oltre il credo religioso perché guarda all’uomo in quanto tale. Nel presente testo, tutte le frasi e le affermazioni scritte in corsivo sono citazioni, quasi sempre testuali, tratte dall’enciclica “Fratelli tutti”.
L’educazione civica, come lascia chiaramente intendere l’aggettivo, è finalizzata alla socializzazione, all’integrazione attiva dell’individuo nella società. Questo ha conseguenze positive, non solo per la società stessa, ma anche per il singolo individuo perché nessuno può raggiungere la sua pienezza isolandosi dal contesto sociale di riferimento. Il termine civico, infatti, deriva dal latino civicus il cui significato è cittadino, quindi, parlando di educazione civica ci riferiamo ad un’educazione che deve trasformare l’uomo in cittadino, in individuo immerso ed integrato nella comunità sociale, quindi i termini civica e cittadinanza sono strettamente connessi. Parlando di cittadinanza e di cittadini mi viene in mente una frase di Piero Calamandrei, uno dei padri costituenti, tratta dal contributo “Contro il privilegio dell’istruzione” del 1946: «I meccanismi della costruzione democratica sono costruiti per essere adoprati non dal gregge dei sudditi inerti, ma dal popolo dei cittadini responsabili: e trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere». Il contributo fu pubblicato sulla rivista “Il ponte” II, 1 gennaio 1946.
Tenendo sempre presente questo importante obiettivo ed il ruolo che esso richiede, ogni docente dovrebbe vivere e mettere in pratica la sua missione e concepire tutta l’attività che a scuola si svolge in virtù della creazione del cittadino. L’insegnamento di educazione civica è solo la parte più strutturata finalizzata a veicolare e ad agevolare la conoscenza delle norme che regolano la vita pubblica, a partire dalla nostra Costituzione.
Il concetto di cittadinanza si basa sull’uguaglianza dei diritti e dei doveri, sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Ormai è sotto gli occhi di tutti, è facilmente percepibile anche ad un esame poco attento delle dinamiche sociali tanto da diventare un semplice dato di fatto: viviamo in una società basata solo sui diritti. Tutti abbiamo rimosso il concetto di dovere.
Per altre faccende si sente parlare sempre più spesso di cittadinanza. Se ne occupa anche la politica, su posizioni alquanto diversificate, a proposito della concessione del diritto di cittadinanza agli immigrati. Si va da chi è contrario a prescindere, a chi è favorevole a prescindere, a chi è favorevole con alcuni paletti più o meno stringenti e più o meno rigidi: ius soli, ius culturae, ius sanguinis.
Un breve inciso per spiegare i tre termini. Ius culturae e ius soli sono metodi di acquisizione della cittadinanza che, anche se simili, presentano alcune differenze che li contraddistinguono. Per essere più precisi, lo ius culturae è un correttivo dello ius soli puro. Quest’ultimo prevede l’ottenimento automatico della cittadinanza del Paese in cui si nasce e si contrappone allo ius sanguinis. In Italia chi nasce da cittadini stranieri acquisisce la cittadinanza solo al compimento della maggiore età, mentre lo ius culturae, anche se al momento si tratta soltanto di una semplice proposta, andrebbe ad accorciare i tempi: se la riforma proposta dovesse diventare legge, i minori nati in Italia da genitori stranieri potrebbero acquisire la cittadinanza italiana all’età di 12 anni – anziché 18 – ma solo se dimostrano di aver concluso con successo uno o più cicli di studio o conseguito una qualifica professionale. In altre parole l’elemento culturale diventerebbe il criterio essenziale per l’ottenimento della cittadinanza.
Questa riforma andrebbe a modificare la regola dello ius sanguinis, avvicinando l’Italia alla normativa vigente in molti altri Stati europei. Lo ius soli senza limitazioni invece, è la regola vigente negli Stati Uniti e in Canada, Paesi in cui la nazionalità dei genitori non influisce sulla cittadinanza del bambino.
Cos’è lo ius sanguinis? Allo ius soli e allo ius culturae si contrappone lo ius sanguinis, regola vigente in Italia. Il cosiddetto “diritto di sangue” prevede che il bambino acquisisca la cittadinanza che eredita dai genitori: quindi sarà considerato straniero se i genitori sono entrambi stranieri e italiano se almeno uno dei due è italiano.
Ma ritorniamo al discorso precedente. Fin quando non ci riconosciamo portatori di doveri, oltre che di diritti, anche noi dovremmo essere annoverati tra coloro che dovrebbero inoltrare regolare istanza per l’ottenimento della cittadinanza. Il concetto di cittadinanza si basa, infatti, come affermato poco sopra, sull’uguaglianza dei diritti e dei doveri e su questa uguaglianza poggia il concetto di giustizia. È solo ottemperando ai doveri che possiamo giustamente e con forza rivendicare i nostri diritti. Diritti e doveri sono due facce della stessa medaglia. I miei diritti costituiscono i doveri di un altro e viceversa. Solo dal corretto equilibrio tra diritti e doveri a livello di individuo e di comunità possiamo costruire una giustizia sociale degna di questo nome, solo con questa premessa possiamo pensare ad una società più equa e veramente democratica. Una società basata sul rispetto reciproco, primo inalienabile passo verso un futuro di pace, di serenità e di prosperità per tutti.
C’è un’altra considerazione da fare ed è quella relativa al fatto che «Nessuno raggiunge la vera pienezza isolandosi». Questa considerazione rende conto della validità del lavorare in gruppo, a tutti i livelli. In campo scolastico ci si riferisce, ad esempio, al cooperative learning, ai focus group, alla peer education ed al più classico lavoro di gruppo proposto ai ragazzi, spesso in modo estemporaneo. Il lavorare in team è una metodologia molto importante e pregna di positivi risultati anche per i docenti perché possono allargare i loro orizzonti e diversificare i loro punti di vista con positive ricadute sul piano umano e professionale. Conseguenze che permettono di raggiungere più facilmente gli obiettivi programmati ad inizio di anno scolastico, ma anche di procedere più speditamente verso gli obiettivi generali del sistema di istruzione e formazione.
Spesso viviamo chiusi nella gelosia del nostro sapere e delle nostre idee, nel ristretto mondo del nostro io, per motivazioni le più diverse. Solo se ci apriamo all’altro, invece, possiamo migliorarci e tale apertura diventa ancora più efficace e generatrice di bene se cerchiamo di vedere e di accogliere il meglio della personalità altrui, se lo promuoviamo e lo accettiamo. Nello stesso tempo dobbiamo, però, essere pronti a donarci così come siamo, senza infingimenti e senza maschere, ed a mettere in comune tutto quello che sappiamo e che sappiamo fare. In tal modo le altrui competenze inquinano, positivamente, anche il nostro modo di fare. Tale atteggiamento è valido in tutti i campi. Bisogna avere, come dice Papa Francesco, un cuore che si lasci completare dall’altro.
A maggior ragione il docente, per dovere etico prima che professionale, deve avere un cuore aperto, un cuore che si lasci interrogare dai suoi studenti considerati nella loro individualità. Deve guidare i passi dei suoi giovani interlocutori con leggerezza e senza prevaricazione, ma seguendo le loro inclinazioni ed aiutandoli a realizzare i loro sogni. Ogni docente, così come ogni adulto, dovrebbe insegnare ai ragazzi la liberà individuale, dovrebbe insegnare ai ragazzi a comportarsi secondo il proprio modo di vedere e ragionare con la propria testa: è così che ci si può definire cittadini e non sudditi.
La vicinanza alla quale ci si riferisce non deve essere una vicinanza intesa esclusivamente come una vicinanza fisica, spaziale, ma deve trattarsi di una vicinanza di anime. E questo si può ottenere cercando il meglio nella vita dell’altro senza preconcetti, senza preclusioni. In tal modo sarà possibile andare nella direzione di una vera e piena coesione sociale. Un efficace cemento sociale in grado di tenere tutti uniti, un cemento in grado di non escludere nessuno, in grado di andare verso una sostanziale fraternità aperta a tutti. Ma comportamenti simili hanno bisogno, come detto, di cuori che si lascino completare, di cuori sempre pronti all’incontro ed al dialogo.
L’atteggiamento di apertura rappresenta un valido aiuto nelle avversità. Le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere e non la scusa per quella tristezza inerte che favorisce la sottomissione ed apre la porta alla depressione ed alla rassegnazione. Quante volte ognuno di noi si è trovato innanzi a problemi che sembravano irrisolvibili, sia a scuola come nella vita. Quando li abbiamo affrontati con il piglio giusto, chiedendo aiuto e consiglio ad altri, condividendo il nostro disagio e la nostra impotenza, superandoli e la cosa ci ha lasciato un senso di soddisfazione e di gratificazione, di appagamento fisico e morale. Si tratta della coscienza, spesso inconsapevole, di aver fatto un altro piccolo passo verso la nostra realizzazione, un ulteriore passo in direzione di quel miglioramento continuo che dovrebbe essere il fine escatologico della vita di ognuno di noi.
Nell’ambiente sociale che così si instaurerebbe anche le difficoltà che sono o potrebbero sembrare enormi diventano occasione di crescita per tutti. Dobbiamo lavorare tutti insieme per creare ed utilizzare quello “spazio di corresponsabilità” in grado di avviare e generare nuovi processi e nuove trasformazioni perché la vita non deve essere intesa come tempo che passa, ma come tempo da dedicare all’incontro empatico con l’altro diverso da me. Però, purtroppo, la società è cresciuta tanto sotto molti aspetti ma nella condivisione empatica e nell’accompagnamento è ancora tanta la strada da percorrere. Ci ritroviamo, infatti, ancora schiavi e prigionieri del nostro egoismo che, paradossalmente, sta traendo nuova linfa nella società globalizzata. La globalizzazione, infatti, viene usata per cercare di sopraffare l’altro e non per condividere. I processi di trasformazione, innescati spesso dal sogno di un singolo individuo, per attivarsi e realizzarsi hanno bisogno della determinazione e della condivisione di tutti i soggetti coinvolti. C’è bisogno che ognuno si assuma la sua parte di responsabilità.
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