Essere o avere?

Essere o avere?

16 Novembre 2020 0 Di giuseppe perpiglia

John Fitzgerald Kennedy, 35° presidente degli Stati Uniti d’America, in carica dal 20 gennaio 1961 al 22 novembre 1963, quando fu assassinato a Dallas, nel suo discorso di insediamento pronunciò una frase che potrebbe essere assunta come manifesto per l’educazione civica e la cittadinanza attiva: «Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, piuttosto chiedetevi cosa potete fare voi per il vostro Paese».

Pensare agli altri ed alla comunità, al bene comune ampiamente inteso, è una questione di cultura e di educazione. Questa semplice, quasi banale, osservazione chiama prepotentemente in ballo le agenzie educative per antonomasia: la famiglia e la scuola. La famiglia è la prima e più importante agenzia educativa non formale. La scuola, invece, è l’istituzione nazionale deputata all’istruzione formale.

Le due agenzie dovrebbero collaborare attivamente e strettamente per rafforzare le reciproche influenze e le reciproche attività, essendo entrambe finalizzate verso gli stessi obiettivi. Era questo lo spirito ed il fine che il legislatore ipotizzava quando, nel 1974, furono istituiti i decreti delegati. Ben sappiamo quale sia stata la loro evoluzione fino ai nostri giorni. Da tempo, infatti, scuola e famiglia, invece di collaborare, sono “l’uno contro l’altro armati”. La scuola mal sopporta quelle che reputa intromissioni nel suo campo di attività, mentre la famiglia ha pretese incongrue e si pone, come affermato da qualcuno, quale sindacalista dei propri figli.

Per combattere questo stato di cose, bisogna pure che qualcuno faccia il primo passo. Ed il primo passo non può non farlo se non la scuola, come istituzione alla quale afferiscono e con la quale si confrontano numerosi studenti e, quindi, numerose famiglie.

L’educazione civica non dovrebbe riguardare solo gli studenti, ma dovrebbe interessare e coinvolgere, forse in misura ben maggiore, l’istituzione in quanto comunità strutturata. Ma come?

Il primo passo, molto difficile ma essenziale è di non avere paura del giudizio e delle valutazioni del proprio operato. La norma spinge molto in direzione di un controllo interno ed esterno sulla scuola, non fosse altro che come conseguenza dell’autonomia che ad essa è stata riconosciuta (DPR 8 marzo 1999, n. 275 e Legge 15 marzo 1997, n. 59). Si pensi, ad esempio, al rapporto di autovalutazione, alla rendicontazione sociale ed alle prove standard nazionali (INVALSI) ed internazionali (OCSE-PISA, IEA-TIMSS).

Spesso l’atteggiamento delle istituzioni scolastiche e del corpo docente verso la valutazione esterna si pone su un piano sbagliato. Bisognerebbe, infatti, avere l’umiltà e la razionalità di accettare le critiche esterne e di rifletterci sopra con spirito critico. l’autoreferenzialità è nemica del miglioramento. Alcune delle tante riunioni imposte dalla norma e convocate dal dirigente scolastico, invece di essere condotte e vissute come vuote formalità, andrebbero riempite di sostanza e di significato da parte di tutti, dirigente scolastico e singoli docenti.

Nella comune prassi, infatti, è presente il gruppo di lavoro per l’autovalutazione, ma lo stesso può dirsi per altri gruppi di lavoro, e capito molto di frequente che svolga il suo compitino che mostra al dirigente, il quale dà il suo placet e poi viene approvato, ma difficilmente discusso, in seno al Collegio dei docenti. A questo fa seguito la relazione sulle buone intenzioni, come nella letterina di Natale, dei docenti che andranno a costituire, opportunamente sintetizzate e strutturate, il piano di miglioramento. E le carte sono a posto!

Il risultato di tutta questa attività è di essere stati impegnati per quelle 2-3 ore e uscire dal Collegio dei docenti con un senso di noia e di inutilità, senza nessuna gratificazione. In tal modo la professione viene vissuta come un lavoro che, invece di essere appagante e soddisfacente come dovrebbe essere, diventa un lavoro frustrante, insoddisfacente, il che pregiudica la motivazione e l’entusiasmo per cisi innesca un circolo vizioso che, come tale, si autoalimenta in negativo.

La strada da seguire, a mio parere per quello che può incidere, è di prendersi sul serio e di prendere sul serio il proprio lavoro.

Lo stesso atteggiamento va tenuto, ad esempio, nel corso dei colloqui. A volte, l’esperienza insegna, è difficile trattare con alcuni genitori che partono prevenuti sul giudizio che i docenti hanno espresso sui loro ragazzi mettendo sotto accusa, in patica, i docenti. E non esiste nessun piano strategico per impedire tutto questo. Ed allora?

La cosa più razionale da fare e presentarsi a questo rituale con tutte le carte in regola. E le carte per antonomasia, in questo caso, sono i registri con tutte le verifiche, scritte e/o orali che siano, ed i relativi giudizi adeguatamente motivati. Altra dotazione indispensabile e che, come tale, non può mancare, e la coerenza dei propri giudizi, sia tra le prove di uno stesso alunno, sia per le prove tra alunni diversi. Nel primo incontro è bene, inoltre, spiegare quale sia il metro di giudizio che il docente utilizzerà nel corso dell’anno, quali i criteri osservati per formulare il giudizio. La coerenza implica, ovviamente, anche un’adeguata conoscenza dell’alunno, dei suoi punti di forza e delle criticità dimostrati. Non ci si può presentare ai colloqui, agli incontri con le famiglie, senza un’opportuna strumentazione logica e con prove documentali adeguate. Quando ai genitori si fa un discorso articolato e suffragato da dati di fatto quanto più obiettivi possibili, molti di essi capiranno e, se vogliono veramente il bene dei loro figli, si comporteranno di conseguenza. Non potranno non riconoscere, nella maggioranza dei casi, la buona fede del docente e la sua voglia di fare bene il proprio lavoro per la crescita del ragazzo. Molto probabilmente rimarrà un gruppo ancorato sulle posizioni di partenza, ma tenderà, sotto la spinta trascinatrice del gruppo, ad assottigliarsi sempre più, a diventare sempre più residuale.

Questo lavoro di trasparenza deve essere affiancato e promosso dalla dirigenza con attività volte a creare ed a rafforzare il legame e l’interazione scuola-famiglia. Non basta certo la festa di fine anno o la sfilata di Carnevale, o magari un incontro estemporaneo per il Santo Natale. Si tratta pur sempre di attività episodiche e slegate dal contesto vero della vita scolastica. Non sono suffragati da uno scopo strategico forte, a parte il momento di convivialità, che pure non guasta. Sarebbe, invece, molto più strumentale un coinvolgimento diretto nella vista della classe, nelle sue attività curriculari. Perché non invitare le famiglie per presentare loro i progetti, magari solo quelli più importanti, spiegandone le finalità ed il perché si è deciso di adottare proprio quel progetto e non, magari, qualche altro? Perché non coinvolgere le famiglie sfruttando le innumerevoli competenze di cui sono portatrici, per svolgere, insieme ai ragazzi, come esperti o come partner, i progetti selezionati? Perché non progettare tenendo presenti le competenze che potremmo trovare tra i genitori?

In questo modo, seppure in tempi non molto rapidi, si verrebbe a creare una maggiore coesione con un buon numero di famiglie che, nel corso del tempo, potrebbero far da traino ad altre, innescando un circolo virtuoso. Il clima relazionale che si verrebbe a creare sarebbe avvertito dagli alunni e sarebbe una grande lezione di educazione civica, perché verrebbe non da un docente seduto alla sua cattedra, ma dalla comunità educanda il che gli conferirebbe molta più efficacia.

A questo punto più di qualcuno si chiederà: «Ma che c’entra il titolo?». La domanda sottintende due oggetti: la preparazione disciplinare ed una preparazione, per così dire, umana. Il docente, in altri termini, deve possedere solo una conoscenza della disciplina all’altezza della situazione, oppure essere una persona che sa essere coerente con sé stesso e con gli altri, una persona che riesce a relazionarsi proattivamente con i ragazzi e con le famiglie? È solo una domanda retorica perché la risposta è che un docente che viole svolgere il suo lavoro in modo corretto e strumentale alla crescita dei ragazzi a lui affidati deve possedere entrambe le caratteristiche perché entrambe servono a coinvolgere i ragazzi nel lor progetto di vita.

Articoli correlati:

  1. La competenza dell’ascolto
  2. Il lavoro per progetti
  3. Oltre la conoscenza: l’essere
  4. Chi ha paura dell’INVALSI?
  5. La consapevolezza
  6. Professionalità docente
  7. La fionda
  8. Una scuola a maglie larghe
  9. I compiti di realtà
  10. Perché educare al volontariato