I test di ingresso

I test di ingresso

8 Settembre 2020 0 Di giuseppe perpiglia

In questi giorni si sono svolti i test d’ingresso per iscriversi alle varie facoltà universitarie. Una marea di giovani hanno sacrificato le, quasi sempre, meritate vacanze estive per prepararsi a questa prova. Non si tratta solo di mettere qualche crocetta su un quiz a scelta multipla o rispondere a qualche quesito di logica. È uno snodo nella vita di ognuno, rappresenta un momento cruciale, un momento in grado di determinare il futuro di un ragazzo di 19÷20 anni. Tutto questo è dovuto al fatto che lo Stato italiano per accesso all’università debba essere contingentato in base a criteri, spesso disattesi, relativi alla probabile richiesta di una certa tipologia di professionisti. Questa pseudo programmazione ha portato alla situazione di avere, secondo alcune stime circolate in seguito alle problematiche sollevate dal COVID-19, una carenza di circa 11.000 medici…  Per restare nell’ambito sanitario, mancherebbero anche gli infermieri professionali. Da altro canto, l’Italia vanta un numero enorme di avvocati. A mio parere è sbagliato proprio il concetto che sta alla base di questa scelta. Il nostro sistema scolastico è, secondo qualcuno, un sistema che funziona molto bene per coloro che non ne hanno bisogno. Il significato di questa frase è che la scuola con la sua democraticità che è solo di facciata, non riesce a rispondere alle esigenze di una società sempre più articolata e sempre più imprevedibile nella sua evoluzione sull’asse temporale. Il numero chiuso per l’accesso alle università è una risposta inefficace a mancanze maturate nel campo dell’istruzione di prima e di secondo grado. È esperienza comune, infatti, che la scuola primaria e la scuola secondaria di primo e di secondo grado non sempre portano avanti solo di alunni che hanno raggiunto gli obiettivi previsti e programmati per quello specifico anno scolastico.  Spesso i dirigenti chiedono ai docenti di rivedere qualche valutazione al fine di dimostrare che l’istituzione da loro diretta è molto efficace.  O magari solo per avere meno problemi con i genitori.

I docenti, dal canto loro oppongono, quando lo fanno, sono una resistenza di facciata perché una bocciatura è ammettere il loro fallimento come docenti. In questo modo, però, si portano avanti studenti che, via via che il loro percorso scolastico si snoda secondo l’ordinamento scelto, accumulano sempre più carenze e lacune. Il risultato non è un diploma ma solo un pezzo di carta senza alcun valore. Anzi, un valore ce l’ha: permette l’iscrizione agli studi universitari.

Altro vulnus è quello che riguarda l’orientamento. È, questa, un’attività, poco più o poco meno di un simulacro, lasciata per l’ultimo mese del terzo anno della scuola secondaria di primo grado emessa in pratica solo per ottemperare ad un obbligo di legge. L’orientamento, invece, dovrebbe essere parte integrante dell’attività didattica a partire dall’ingresso nell’istituzione scolastica, cioè dal primo giorno della scuola primaria, e magari anche nella scuola dell’infanzia. L’orientamento non può esaurirsi nella domanda: “cosa ti piacerebbe fare?” ma dovrebbe essere un percorso continuo che porti ogni studente alla ricerca di sé stesso, delle sue preferenze, dei suoi interessi, di quello che lo soddisfa veramente e pienamente. Il coinvolgimento del docente deve essere completo e costante, egli non si può limitare alla classica lezione frontale con la quale ammannisce la stessa cosa a persone molto disomogenee, molto diverse tra di loro. Il docente non può barricarsi dietro l’ipocrisia del “trattare tutti allo stesso modo perché io sono una persona giusta”. Don Lorenzo Milani diceva, infatti, “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali” (da Lettera ad una professoressa).

Ormai, e non da ora, la scuola servizio ha cessato di fornire un servizio standard a cui tutti gli alunni erano tenuti ad uniformarsi, ma ha intrapreso la strada della personalizzazione. È passata dall’essere una scuola per un alunno ipotetico quanto ideale o idealizzato, e sia appresta ad essere una scuola della persona reale, di ogni singolo studente nella sua splendida unicità ed individualità. È finita l’era in cui lo studente si doveva adeguare alla scuola ed è iniziata l’era in cui è la scuola, nella figura del docente in particolare, che si deve adeguare al singolo studente. In questo senso, allora, si fa vero orientamento perché si aiuta lo studente nel necessario processo di introspezione oggi ancora molto più necessario in seguito all’enorme disponibilità di stimoli offerti dalla società.

Allora, lasciamo che ogni ragazzo si iscriva alla facoltà che ritiene più congeniale alle sue aspettative ed alle sue potenzialità e rendiamo anche l’università una scuola in grado di dare un servizio adeguato al suo livello per fare in modo di avere laureati che sappiano districarsi adeguatamente nella società, prima, e nel mondo del lavoro, poi. Il numero chiuso, come tale, non risolve ma, per certi versi, può addirittura acuire il problema. Quanti saranno coloro che superano i test grazie ad un “aiutino esterno”?, quanti, pur superando il test, si perdono lungo la strada perché, magari, non era quella più adatta a loro? Penso che anche in questo caso vengano fuori le pecche e le carenze di una politica che non è all’altezza delle richieste del tempo che stiamo vivendo. È il vecchio metodo di mettere una pezza ai problemi contingenti per l’incapacità o la mancanza di voglia di affrontarli nella loro complessità e nella loro completezza.

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