La scuola: riflessioni

La scuola: riflessioni

27 Agosto 2020 0 Di giuseppe perpiglia

La scuola, intesa come attività quotidiana per oltre 8 milioni di studenti e circa 835 mila docenti, è basata sulla comunicazione e la comunicazione non può non passare se non dal riconoscimento reciproco. È facile dedurne che la scuola rappresenta, a causa di ciò e per sua natura intima, un incredibile motore di coesione sociale, al pari del volontariato dei cui valori deve essere intrisa.

Alla scuola la società demanda il compito e la funzione di promuovere la cultura, ma non una cultura polverosa e stantia, bensì una cultura intesa come crescita complessiva e multiprospettica della persona. La cura e la crescita della persona, tramite la condivisione e la creazione della cultura, è anche cura e crescita della società. La cultura è, infatti, medicina molto potente, medicina in grado di curare buona parte delle malattie della nostra società, ma serve una cultura viva, capace di stimolare il gusto e la passione nei propri studenti. La pseudo cultura legata ad un nozionismo superato dalla storia ha il solo effetto di allontanare i ragazzi dalla scuola e, cosa ancora più nefasta, spegne in loro la voglia di imparare per il solo fine di conoscere e di migliorarsi. Ne consegue che l’apprezzamento sociale dei docenti si fonda sulla loro capacità, non certo di trasmettere nozioni, bensì di formare giovani entusiasti, capaci di combattere la noia perché animati da ideali in grado di esaltarne l’umanità.

Ogni generazione si propone di cambiare la società creata da chi l’ha preceduta. Sta agli adulti far comprendere ai giovani che, come diceva Nelson Mandela, “l’istruzione e l’educazione sono le armi più potenti che si possano utilizzare per cambiare il mondo”.

Un’educazione efficace deve fare in modo che l’alunno ritrovi la sua identità, l’accetti e la migliori giorno per giorno. È una piena consapevolezza della propria identità che permette di accogliere identità diverse e trarne tutto il meglio, mettendo a disposizione degli altri quanto di buono ognuno di noi può offrire.

Per far sì che l’alunno si renda consapevole della sua identità bisogna renderlo protagonista del suo apprendimento e creatore egli stesso di cultura. L’identità di un qualsiasi soggetto, infatti, non si definisce in astratto ma nel concreto del suo agire. Tale attività, vera e propria esigenza, diventa ogni giorno di più, fattore ineludibile per la nascita e la crescita di una società migliore e più giusta. Anche nella condivisione della cultura, come in campo economico, bisogna avere il coraggio di abbandonare l’assistenzialismo rappresentato dalla trasmissione di nozioni senza uno sbocco e senza un significato per il discente, trasmessi solo per seguire il totem del programma. È necessario, invece, attivare percorsi di impresa culturale, individuale e collettiva. Il docente deve solo pungolare l’alunno con domande pregne di significato e di senso affinché sia l’alunno stesso a trovare in sé stesso le risposte che meglio si confanno alla sua indole ed alla sua visione del mondo.

Da quanto appena affermato ne consegue che la cultura non deve essere proposta come qualche cosa di estraneo, di altro rispetto al mondo interiore e sociale di ognuno di noi, al contrario deve partire ed arrivare alla comunità territoriale dove insiste l’istituzione ed allargare i suoi orizzonti a livello regionale, nazionale, europeo e mondiale. La scuola dovrebbe essere ripensata, quindi, come “scuola della comunità locale“, istituzione chiamata a rispondere, nel concreto, alla domanda di formazione anzitutto umana, e poi culturale e relazionale di ogni singolo alunno. Il lavoro e le attività che vengono proposte ai ragazzi devono essere esperite in vista dell’acquisizione di “competenze” spendibili, accertabili, anche misurabili, sapendo la difficoltà di tale attività. Ogni docente, quando si accinge ad esperire una qualsivoglia tipologia di valutazione, dovrebbe tenere a mente quanto affermato da Albert Einstein «Non tutto ciò che può essere quantificato (valutato) è interessante e non tutto ciò che è interessante può essere quantificato».

È, questo della valutazione, un punto dolente dell’istruzione nazionale, infatti, la scuola italiana si porta dietro un pesante deficit di cultura della valutazione, aggravato dall’uso distorto che per tanto tempo è stato fatto di questo termine, ridotto a sinonimo di dare un giudizio o, addirittura, emanare una sentenza. Valutare non deve essere sinonimo di giudicare, ma di “conoscere” e di “conoscersi“. È riflettere sul proprio operato per migliorare il proprio lavoro.

Una vera ed efficace conoscenza è quella che può essere trasformata in cultura e questo può avvenire sono grazie alla necessaria riflessione tanto sui contenuti, tanto sul proprio modo di apprendere.

Le conoscenze servono per la vita e si trasformano in competenze che, come tali, non attengono mai ad una unica disciplina, bensì a più discipline e perciò è necessaria un’alleanza, un’integrazione fra tutti i componenti del corpo docente e del consiglio di classe in particolare. Bisogna mettere da parte la tendenza, ancora molto diffusa tra gli insegnanti, di curarsi solo del proprio orticello disciplinare per allargare i propri orizzonti culturali ed i propri interessi collaborando con tutti i soggetti che a diverso titolo sono coinvolti nell’educazione e nella formazione degli studenti. E per fare ciò bisogna conoscere bene ogni singolo studente.

Il metodo galileiano ci ha insegnato che si legge uno stato di fatto e si propongono delle ipotesi da valutare con attenzione, analizzando criticamene i risultati ottenuti dagli esperimenti. Ne consegue che, anche al fine di potenziare la motivazione, e quindi l’acquisizione culturale, di ciascun alunno, bisogna prima indagare e osservare il contesto e la personalità dello studente stesso per comprendere le capacità e le attese di ognuno, poi attivarsi in base ai risultati di tali indagini, personalizzando gli interventi.

Questo comporta una partecipazione attiva del docente, un suo coinvolgimento profondo e non solo di facciata. Infatti, se l’allievo deve imparare a leggere ciò che il maestro propone e aiuta a svelare, anche ogni docente deve imparare, e imparare a leggere gli occhi e l’anima di quelli che a lui sono affidati. Bisogna che docenti ed alunni abbiano la necessaria consapevolezza dei rispettivi obiettivi. Dare consapevolezza dei fini era, per Adriano Olivetti, una delle cose necessarie e basilari al buon funzionamento di una fabbrica, condizione e punto di partenza per fare di un’impresa produttiva una “comunità di persone” e questo, spesso, è il primo gradino per costruire un solido edificio motivazionale. Lo stesso, ed ancor di più, vale per la scuola, anch’essa caratterizzata dall’essere una comunità di persone. Quando si ha ben chiaro l’obiettivo da raggiungere, diventa più facile trovare delle motivazioni personali che ne giustifichino il raggiungimento. Quando, invece, si propone un obiettivo debole, falso, avulso dal contesto di vita del ragazzo, un obiettivo fumoso, dai contorni indistinti, tutto diventa più difficile trascendendo in un puro manierismo.

La progettazione del lavoro è certamente una componente importante anche per la vita di ogni istituzione scolastica. Essa, è bene ricordarlo, è una delle prerogative su cui si fonda l’autonomia delle istituzioni scolastiche, conferita con le disposizioni contenute nel DPR 8 marzo 1999. n. 275: autonomia -didattica e organizzativa, di ricerca, sperimentazione e sviluppo- che la legge n. 3 del 2001 eleva a rango costituzionale (Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 248 del 24 ottobre 2001).

L’atto fondamentale attraverso cui l’autonomia viene esercitata è la predisposizione, con la partecipazione di tutte le componenti operanti nella scuola, del Piano triennale dell’Offerta Formativa così come richiesto nell’articolo 3. Il PTOF viene elaborato dal Collegio dei Docenti sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte generali di gestione e di amministrazione, la cui definizione spetta al Consiglio di Istituto, che vi provvede tenuto conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni, anche di fatto, dei genitori e, per le scuole secondarie di secondo grado, anche degli studenti. È dunque all’intera comunità scolastica che si chiede di contribuire, coinvolgendola in ogni sua componente, all’elaborazione del documento che costituisce, come testualmente recita la norma, l’identità culturale e progettuale di ogni singola scuola. Alla sua definizione provvede il Collegio dei Docenti, mentre la sua adozione avviene ad opera del Consiglio di Istituto.

La scuola, come ogni altra organizzazione, dalla più semplice alla più complessa, ha bisogno di regole, norme, procedure, ma anche di ascolto e di emozioni. Ecco perché ogni docente ed ogni dirigente scolastico deve essere molto rigido nel condividere le regole, ma anche nel rispettarle e nel farle rispettare. Ne va del buon funzionamento dell’istituzione e dei risultati del lavoro di tutti e di ognuno. Ma ancor di più ne va della crescita personale e dell’acquisizione del necessario senso di responsabilità di ognuno. La scuola deve mirare in alto, deve aiutare i giovani ad inventare ed a coltivare nuovi sogni. Deve trattare i ragazzi che le vengono affidati per quello che sono: persone, uomini e donne in formazione che meritano di essere trattati con una giusta inclusività.

La Costituzione affida alla scuola il compito di essere uno strumento di uguaglianza, di inclusività, di cittadinanza attiva di cui tutti gli allievi hanno il sacro santo diritto di usufruire.

Il fine ultimo della scuola non è quello di avere studenti preparati, bensì cittadini in grado di ragionare con la propria testa, cittadini dotati di spirito critico. Questo fine fu riconosciuto e proclamato già nel 1946 dal padre costituente Piero Calamandrei che, nel suo lavoro Contro il privilegio dell’istruzione, scrisse: «I meccanismi della costruzione democratica sono costruiti per essere adoprati non dal gregge dei sudditi inerti, ma dal popolo dei cittadini responsabili: e trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere».

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