Una scuola a maglie larghe

Una scuola a maglie larghe

7 Luglio 2020 0 Di giuseppe perpiglia

«Scusi, professore, cosa ne pensa se questo 4 lo passiamo a 6? Sa, il ragazzo potrebbe soffrirne. In fin dei conti, cosa vuole che sia». Quante volte, nei consigli di classe a fine anno scolastico, ci siamo sentiti dire queste parole dal dirigente scolastico?

Dire ad un ragazzo che non ha raggiunto gli obiettivi previsti è sempre una sconfitta per il ragazzo, ma anche per i docenti e per il sistema scuola. Chiedere di aumentare artatamente i voti è, però, molto peggio, perché si lede la dignità del ragazzo e del docente, sia dal punto di vista professionale che umano, provocando, inoltre, un danno al processo maturativo dell’alunno. Questi, infatti, vedendo una valutazione positiva a fronte di un impegno deficitario, penserà che tutto gli è dovuto, che i risultati si possano ottenere senza sforzo e senza partecipazione.

D’altro canto, chiedere ad un docente di aumentare i voti è un atto vile ed ipocrita che serve solo a nascondere la polvere dell’inefficacia dell’attività formativa sotto il tappeto dell’apparenza. In questo atteggiamento poco edificante, l’unico a guadagnarci è il dirigente scolastico che avrà un maggior numero di alunni promossi con qualche, risibile, aumento nel numero degli iscritti e, quindi, un ritorno economico personale. Ma a fronte di un tale discutibile riscontro positivo, quante sono le criticità?

La dignità del docente che si presta ad una tale richiesta viene bellamente calpestata con il consenso dell’interessato. Il docente che acconsente a simili assurde richieste non è mai giustificato né giustificabile perché viene meno al codice etico e deontologico imposto da una professione così delicata. È un pubblico ufficiale, un rappresentante dello Stato, che abdica al suo ruolo. Dichiara il suo più completo fallimento sia sul piano professionale sia sul piano prettamente umano. Il lavoro di un anno viene buttato alle ortiche nel breve volgere di una risposta monosillabica. A meno che nel corso dell’anno non si sia fatto null’altro se non un simulacro di attività didattica e formativa. In questo caso, comunque, non si perde nulla perché nulla si è fatto. È un fallimento per l’istituzione scolastica in quanto essa trova una facile scappatoia ad un suo insuccesso. Si trova una soluzione, ma non si risolve il problema.

L’atteggiamento corretto, per altro già previsto dalla normativa, è quello di fare una sana autocritica, di passare al vaglio le proprie attività e la propria organizzazione per mettere in risalto le criticità con il fine di sanarle. Il rapporto di auto-valutazione non è una semplice incombenza burocratica, ma deve essere concepito come un momento alto di riflessione sull’operato dei singoli docenti, dei Consigli di classe, della dirigenza e dell’istituzione scolastica nel suo complesso.  Esso rappresenta un momento qualificante della professionalità docente, è un mettere in pratica tutte le parole che si dicono, è un dare sostanza ai valori che sottostanno alla professione docente.

Eventuali risultati non in linea con le attese non è detto che siano sempre e solo ascrivibili al docente, al dirigente o all’organizzazione. Non dobbiamo, infatti, dimenticare altri due soggetti chiamati a svolgere un ruolo attivo nel complesso percorso di insegnamento-apprendimento: la famiglia e lo studente. La famiglia deve condividere con la scuola le finalità dell’educazione e dell’istruzione in un confronto dialettico sincero, continuo e proficuo. Lo studente, come richiesto dalla norma e dalla moderna pedagogia, deve essere soggetto attivo, protagonista principale, del proprio processo formativo, per cui gli viene richiesto un impegno serio e costante, un coinvolgimento efficace e produttivo. La scuola, così come richiesto dalla Costituzione, deve attivarsi per rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana che lo studente può trovare lungo il suo cammino verso un apprendimento maturo, ma i passi li deve pur muovere il soggetto che apprende.

Il naturale completamento del rapporto di autovalutazione è il piano di miglioramento che deve essere basato su dati di fatto e su premesse reali, tenendo in conto le risorse effettivamente disponibili, sia interne che esterne all’istituzione. Importante che non sia intriso di falso ottimismo trasformandosi in un libro delle favole dove tutti, alla fine, … vissero felici e contenti.

I negativi atteggiamenti e comportamenti prima stigmatizzati fanno sì che molti ragazzi al termine del primo e del secondo ciclo di studi non acquisiscano una licenza o un diploma ma solo un pezzo di carta il cui valore è nullo o quasi. Ed in questo campo le statistiche sono impietose. Il tasso di abbandono in Italia, infatti, secondo l’indicatore ELET -early leavers from education and training- nel 2018 era ancora del 14,5%. Con tale valore l’Italia si piazza, in Europa, al quart’ultimo posto, riuscendo a superare soltanto la Romania (16,4%), Malta (17,5%) e la Spagna (17,9%). Ciò vuol dire che la scuola italiana perde un ragazzo su sette. Il dato fornito dal ELET per l’Italia è ancora ben lontano all’obiettivo fissato da Europa 2020 che prevedeva un tasso di abbandono massimo del 10,0%.

Per essere però ancora più realisti dovemmo considerare tra i dispersi anche quelli che non hanno di fatto raggiunto i livelli minimi di istruzione essenziali, per quanto possano essere in possesso di un titolo di studio.

Qualche anno fa fece scalpore l’indagine giornalistica che mise in luce i numerosi errori di ortografia spicciola commessi dai candidati in un concorso per avvocati.

È chiaro che le lacune possano presentarsi ed insorgere in qualunque momento e per qualsivoglia ragione. Quando, però, si presentano nella scuola primaria, spesso si comportano come valanghe che nel loro movimento vanno ad ingrossarsi sempre più.

Con significativa frequenza i docenti della scuola secondaria di primo grado si lamentano del lavoro e dei risultati della scuola primaria in quanto la preparazione dei ragazzi delle classi prime è alquanto approssimativa.

Le stesse considerazioni vengono esternate dai colleghi della scuola secondaria di secondo grado nei confronti della scuola secondaria di primo grado.

Il punto critico, purtroppo, è la cultura del rinvio, del delegare a dopo e ad altri quanto andrebbe fatto il prima possibile. Quando un ragazzino arriva in prima media con delle lacune, molti colleghi assumono un atteggiamento miracolistico: sperano che le lacune e le mancanze cognitive vengano riassorbite motu proprio nel corso dell’anno scolastico. E se così non sarà, lo promoviamo lo stesso, tanto recupererà in seconda. E no! Non è così che funziona, perché quel ragazzo nel corso del primo anno ben difficilmente avrà potuto costruire ed assimilare nuova cultura e nuovi saperi, essendo privo di basi solide, per cui le sue carenze e le sue lacune tenderanno ad aumentare.

Quando in prima media arriva un ragazzo con delle carenze cognitive, il docente deve attivarsi subito per porvi rimedio quanto prima per fare in modo che quel soggetto possa seguire il flusso del gruppo in modo efficace e proficuo.

Spero di non aver dato l’impressione di essere per una scuola selettiva. Tutt’altro! La scuola che manda avanti ragazzi che non hanno raggiunto gli obiettivi programmati è una scuola selettiva, altamente selettiva, perché lascia che questi ragazzi vengano selezionati dalla vita, da quella società in cui andranno ad occupare posti periferici. Una scuola che si occupa e si preoccupa di dare solide basi cognitive e formative a tutti, rispettando i ritmi di ognuno è, invece, una scuola inclusiva. E per essere inclusiva la scuola deve promuovere e potenziare le inclinazioni di ognuno, in modo da promuovere veramente il pieno sviluppo della persona umana. Rifacendosi ad Edgar Morin, la società richiede ed ha bisogno di teste ben fatte, non di teste ben piene. Questo sta a significare che il docente può benissimo tralasciare alcuni contenuti a favore di competenze trasversali più pregnanti per ogni suo singolo alunno. La scuola di qualsiasi livello deve portare i suoi ragazzi, tutti i ragazzi, almeno fino alla soglia di sufficienza condivisa, senza, però, dimenticare le eccellenze. La scuola non deve lasciare andare i suoi alunni allargando le maglie della sua rete, rappresentata dal raggiungimento degli obiettivi prefissati e programmati. Al contrario, deve stringere le maglie dell’impegno di tutti i suoi attori, ognuno secondo il proprio ruolo.

Deve stringere le sue maglie, ma con dolcezza per non soffocare gli studenti in schemi prefissati, lasciandoli liberi di volare e di inseguire i propri sogni; deve stringerli ma solo per tenerli stretti e proteggerli e, quindi, impedire loro che si perdano seguendo percorsi altri.

 

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