Studiare stanca

Studiare stanca

8 Maggio 2020 0 Di giuseppe perpiglia

La scuola è il luogo deputato alla trasmissione del sapere ed alla formazione dell’uomo e del cittadino. Essa deve fare in modo che l’alunno-persona acquisisca competenze disciplinari e trasversali, prima fra tutte la competenza di intessere relazioni umane efficaci.

I docenti si affannano nel mettere a punto strategie sempre più valide nel perseguire tale importante finalità e pensano di avere raggiunto lo scopo quando elaborano e strutturano percorsi formativi che soddisfano i loro criteri. Ci si dimentica frettolosamente che il percorso formativo prevede due grandi fasi principali: quella dell’insegnamento e quella dell’apprendimento.

Non sempre diamo il giusto valore e la giusta importanza al punto di vista dell’alunno. Esiste una corrente di pensiero pedagogica che vede il solo docente quale responsabile unico degli esiti del percorso formativo. Secondo costoro, se lo studente impara il docente ha agito bene, se lo studente non migliora il docente ha agito male, escludendo completamente l’apporto, positivo o negativo, dello studente. Il discorso non può certo esaurirsi in questa semplice equazione. Esso è ben più complesso. Le variabili in gioco sono molte e differenziate e coinvolgono non solo il docente e la scuola, ma anche lo studente, la famiglia e l’ambiente socio-politico ed economico in cui lo studente è immerso.

Sicuramente il docente deve essere il protagonista principale e trainante delle attività didattiche. Lo studente, però, deve essere soggetto co-protagonista e non relegato a semplice comparsa, a fruitore passivo di attività pensate e proposte da altri. Ogni docente, per essere fedele al suo ruolo di guida, dovrebbe attivare percorsi in grado di far brillare gli occhi dei suoi ragazzi perché è riuscito a trasmettere la passione per lo studio, per l’acquisizione di nuove conoscenze, la curiosità di far spaziare lo sguardo su sempre nuovi orizzonti, la voglia di senso e di valore.

Il docente può ritenersi soddisfatto quando rende i suoi ragazzi in grado di porsi i giusti interrogativi, non certo quando fornisce loro risposte a domande mai formulate. L’arte di insegnare consiste quasi esclusivamente nel promuovere e potenziare la naturale curiosità dei giovani e, ovviamente, di soddisfarla con le necessarie risposte, meglio ancora se si aiuta e si affianca il ragazzo nel trovarle da sé.

Se andiamo a vedere le attività scolastiche dal punto di vista del ragazzo ci possiamo rendere conto che la situazione non è affatto semplice, anzi. Il ragazzo, infatti, si trova a vivere in una fase di costruzione della propria identità che gli crea, senza dubbio, disagio. Questo disagio è ulteriormente acuto nel caso dell’adolescente che si trova a vivere quella delicata fase di transizione i cui si ha voglia e paura di lasciare la rassicurante condizione della fanciullezza senza avere ancora affinato gli strumenti socio-relazionali che gli permetterebbero di affrontare la vita da giovane con una certa sicurezza. Il ragazzo, inoltre, si trova nella condizione, anche questa per niente facile, di indirizzare la sua vita, ma non sempre ha piena consapevolezza che orientarsi nell’attuale scenario senza un adeguato bagaglio culturale vuol dire pregiudicare fortemente il proprio futuro perché si corre il rischio reale di fare scelte inadeguate. Altro compito che spetta al ragazzo è quello di utilizzare le conoscenze acquisite in modo strumentale per impadronirsi di quelle competenze che gli permetteranno le opportunità offerte dal mondo del lavoro. Deve, però, anche prendere consapevolezza della volubilità di tali opportunità ed attrezzarsi culturalmente per fruire della necessaria flessibilità.

In una tale situazione la scuola non riesce a soddisfare tutte le richieste perché, come dimostrato da una ricerca empirica svolta qualche anno addietro, i professionisti utilizzano meno della metà di quanto studiato. Ciò vuol dire che più della metà del bagaglio culturale che serve loro per stare sul mercato del lavoro lo devono apprendere fuori dal contesto scolastico. Il che implica, a sua volta, avere la competenza di saper apprendere per tutto il corso della vita, devono cioè possedere la competenza di imparare ad imparare. In altri termini è possibile affermare che la scuola consegue tanto meglio il proprio scopo quanto più riesce a porre l’individuo in condizione di fare a meno di essa.

Sarebbe molto opportuno che ogni docente si rendesse conto dello sforzo che tocca fare al bambino ed al ragazzo per acquisire conoscenze e competenze proposte dalla scuola. Lo studente sta cercando di organizzare e di strutturare la sua vita, sta cercando di sistematizzare le conoscenze in una struttura logica e strumentale alla sua crescita personale ed al suo percorso di maturazione. Il suo sforzo riguarda anche un faticoso processo di adattamento a regole, norme, leggi imposte dall’uomo non certo volute dalla natura. Anzi, la maturazione di ognuno di noi comporta proprio il superamento di alcune leggi della natura e l’accettazione di regole condivise che vadano al di là del proprio tornaconto, ma che, invece, tengano conto delle esigenze della comunità. È una cessione di sovranità personale per il bene della comunità.

Il rischio maggiore, sia dal punto di vista dell’individuo che da quello della comunità, è che il ragazzo si faccia trasportare dalla corrente sociale senza effettuare una scelta propria, basata su suoi convincimenti e con la consapevolezza delle sue capacità e dei suoi limiti. Il ragazzo è sottoposto ad un processo di adattamento per acquisire il nuovo habitus sociale con sforzo, con noia ed anche con sofferenza.

Con queste premesse non possiamo non accettare la costatazione che la formazione altro non è che cura e attenzioni prestate e da prestare ai nostri studenti, che rappresentano il capitale umano e professionale di cui il nostro Paese dispone per i tempi a venire. Allora, da docenti e da formatori, chiediamoci quale deve essere il nostro comportamento verso i ragazzi che ci vengono affidati. Probabilmente un gesto affettuoso, una carezza, un incoraggiamento, un sorriso possono sortire effetti molto più efficaci di rimproveri e di minacce. Il rispetto e le attenzioni risultano sempre molto più efficaci della paura e del timore.

I ragazzi, della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado in particolare, sono persone ancora fragili e la loro personalità è in fase di strutturazione. I docenti, allora, devono avere più cura della fragilità, della mancanza, dell’incompiutezza perché è grazie alla fragilità, alla mancanza, all’incompiutezza che si generano gli apprendimenti e si formano le capacità. Prendersi cura delle fragilità, piccole o grandi, di un alunno, lo fa sentire “importante”, gli fa capire che non è solo, aumentando così la sua autostima e pungolandolo a fare sempre meglio per non deludere la persona che crede in lui. Se l’allievo deve imparare a leggere ciò che il maestro propone e aiuta a svelare, anche ogni maestro deve imparare, e imparare a leggere gli occhi e l’anima di quelli che a lui sono affidati.

La professionalità del docente deve essere finalizzata ad accompagnare la crescita educativa, culturale e sociale delle nuove generazioni incoraggiando le capacità proprie di ogni bambino e di ogni ragazzo di emozionarsi, di appassionarsi, di lasciarsi coinvolgere.

In questo lavoro che spetta al docente, ma anche all’alunno, però, bisogna affrontare un nemico forte e pervasivo: il relativismo. È, infatti, questo il dogma del nostro tempo, e parlare di verità, come dovrebbe fare un’educazione degna di tale nome, è spesso considerato autoritarismo.

Per motivare i ragazzi allo studio ed all’impegno si rende necessaria un’educazione autentica, un’educazione, cioè, in grado di parlare al bisogno di significato e di felicità delle persone, proprio perché i giovani sono ancora scevri da tutte quelle impalcature e quegli orpelli che gli adulti preferiscono sovrapporre alla loro anima.

Spesso diciamo o sentiamo che la nostra società è malata. Ebbene, la cultura è la medicina in grado di curare buona parte delle malattie della nostra società, ma serve una cultura viva, capace di stimolare il gusto e la passione dei propri studenti.

Dal momento che la scuola è il luogo della cultura e che la cultura è la sola medicina per questa società, ne consegue che la scuola dovrebbe essere ripensata come “scuola della comunità locale”, istituzione chiamata a rispondere, nel concreto, alla domanda di formazione anzitutto umana, e poi culturale, relazionale.

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