Riflessioni da dentro casa

Riflessioni da dentro casa

11 Marzo 2020 0 Di giuseppe perpiglia

Stiamo vivendo un brutto momento, un’ora buia che speriamo passi presto, ma che sta creando non pochi disagi e sta mettendo a nudo la nostra natura e le nostre criticità, sia come singoli individui, sia come società. Si pensi, ad esempio, alla fuga dal Nord, infettato, verso il Sud che, a questo punto, sarà infettato anch’esso; è un segno di paura, di irresponsabilità e di una solidarietà di là da venire.

Questo nuovo nemico globale sembra avere la capacità, oltre che di provocare una seria patologia a livello polmonare, anche di essere particolarmente abile e veloce nel propagarsi. La televisione ci ripete ad ogni piè sospinto le misure, quasi banali, da prendere per evitare il contagio, ma non tutti hanno la capacità e la responsabilità di metterli in pratica.

In questo periodo siamo sommersi da notizie, informazioni, post da parte di virologi, medici, tecnici (veri o, molto più spesso, presunti) e da un’orda selvaggia di tuttologi che ci inondano di affermazioni che spesso si contraddicono, creando ulteriore confusione e disorientamento che alimentano, a loro volta, la paura e lo smarrimento.

I più saggi, ci avvertono di ascoltare solo le notizie e le informazioni emanate dalle istituzioni scientifiche e politiche, in primo luogo il Governo. Dopo oltre mezzo secolo di scadimento della politica, quale può essere il grado di fiducia che il popolo nutre nei confronti dei suoi rappresentanti? Quale affidamento può fare in una classe politica, qualunque sia il suo colore, che è responsabile di questa situazione dai contorni drammatici? Non mi riferisco, ovviamente, all’infezione da corona virus, bensì alle deficienze che ora esplodono in tutta la loro forza a causa della loro primaria importanza strategica. Qualcuno ebbe a dire che l’Italia è il Paese delle emergenze. Ed anche oggi questa affermazione trova riscontro in quanto sta accadendo.

Dopo decenni di tagli lineari sulla scuola e sulla sanità, dopo aver favorito con politiche miopi ed inconcludenti la fuga di medici e di infermieri all’estero, oltre ai famosi cervelli, dopo aver razionalizzato il numero delle strutture ospedaliere, ci si rende conto che il sistema sanitario è al collasso. È una ben magra soddisfazione ricordare il classico “Io l’avevo detto!”. Ben difficilmente Cassandra ha trovato ascolto, eppure di cose giuste ne ha dette anche lei.

Ormai è tardi per piangere sul latte allegramente versato negli anni passati, con la leggerezza tipica degli irresponsabili. La politica dell’egoismo, dell’egocentrismo, degli amici degli amici, dell’approssimazione e dell’incompetenza ha ridotto il Paese in uno stato tale da non poter rispondere adeguatamente ad un evento, senza dubbio eccezionale, ma che altri Paesi, ai quali non avremmo nulla da invidiare, hanno affrontato con prospettive sicuramente diverse. Già molte strutture sanitarie cominciano a denunciare problemi legati all’impossibile soddisfazione della pressante domanda di posti letto, il personale medico e paramedico, poi, è sottoposto a turni massacranti per carenza di personale che non permette una turnazione funzionale alle esigenze.

Ed ancora, a parere degli esperti dell’OMS, non si è arrivati al picco dell’epidemia per cui la situazione non può che peggiorare, almeno nel breve periodo.

A questo bisogna aggiungere il comportamento a dir poco irresponsabile di molti di noi che non si curano delle indicazioni degli esperti e delle prescrizioni del Governo e non fanno altro che aumentare, almeno potenzialmente, l’area di diffusione del contagio. E qui entra in gioco la scuola e la sua sempre meno incisiva azione nel formare i ragazzi.

Come detto, la scuola e la sanità sono stati i bersagli preferiti dei famigerati quanto irrazionali tagli lineari. Il sistema scolastico italiano è stato delegittimato da pseudo-politici, da politicanti senza alcuna cultura e senza cognizione alcuna delle conseguenze delle loro azioni, conseguenze che oggi stanno venendo al pettine. Un tale atteggiamento ha fatto sì che una realtà, quale la scuola italiana, che godeva di elevata considerazione nel nostro Paese ed in tante altre nazioni del mondo, ha perso sempre più smalto. Oggi, in larga misura, cerca di sopravvivere a sé stessa. I successi che ancora riesce a far registrare sono dovuti, non già al sistema, bensì alla buona volontà, all’abnegazione ed all’etica professionale di singoli docenti. È solo grazie alla deontologia professionale della maggioranza dei docenti, che crede ancora in quello che fa, che si riescoo a raggiungere obiettivi funzionali ad una crescita morale ed etica di bambini, ragazzi ed adolescenti.

Con questo non voglio dire che nella scuola siano tutte rose e fiori. Accanto a queste note positive, infatti, vi sono e persistono ancora molti rovi spinosi ed intricati, difficili da districare, in special modo con la normativa vigente. Un vecchio andante popolare afferma che senza soldi non si cantan messe. Nel caso della scuola, i soldi non sono soltanto le risorse economiche, ma anche le regole di ingaggio dei docenti, la mancanza di una formazione in servizio seria ed all’altezza di quanto l’odierna società richiede, strutture ed infrastrutture adeguate, strumenti didattici in linea con i tempi. A questo, però, andrebbero affiancati controlli continui sul lavoro e sui risultati delle varie istituzioni scolastiche e sui singoli docenti. Controlli che vadano ben al di là delle prove INVALSI e delle prove OCSE-PISA, che pure sono indici che servono a dare il polso della situazione. E sappiamo quali siano i risultati della scuola italiana in queste prove.

Dopo questi provvedimenti, poi, bisogna metter mano al portafoglio e riconoscere ai docenti uno stipendio in linea con le prestazioni e con le competenze richieste. Bisogna ricostruire la legittimazione sociale di una classe di professionisti troppo spesso vituperata.

Il corpo docente deve riprendere e potenziare la consapevolezza del suo ruolo quale motore primario per il miglioramento della società. La sua opera non deve lasciarsi fuorviare da mode passeggere o, molto peggio, lasciarsi sedurre dalla tranquillità della palude stagnante e maleodorante di una rassicurante standardizzazione senz’anima.

Sarebbe l’errore più grave per gli studenti e per lo stesso docente. I ragazzi si ritroverebbero davanti una persona che non emana alcun fascino culturale, che propone contenuti, in cui non crede, in modo asettico anche se tecnicamente adeguato. Sul fronte docenti, invece, la mancanza di senso, il non avere presente la consapevolezza della finalità ultima del proprio lavoro porta inevitabilmente ad un raffreddamento della passione e dell’entusiasmo. Questo a sua volta rappresenta la porta di ingresso della disillusione, della demotivazione e, quindi, di una depressione più o meno strisciante. La classe comincia a sfuggire di mano perché non si sente e non è adeguatamente ed emotivamente coinvolta in un progetto di vita ed il circolo vizioso di autoalimenta.

Il risultato di una tale situazione è duplice. L’insegnante vive il suo lavoro come una fatica improba, insopportabile, e va tendenzialmente incontro a stress. L’alunno, oltre a vivere la scuola come un non-tempo perché senza senso, non apprende e subisce anche lui gli effetti della mancanza di finalizzazione. Alla fine si avrà un docente demotivato che aspetta giornalmente il suono della campanella come una liberazione in attesa della fine pena che lo metta in quiescenza, che possa fargli godere la tanto agognata pensione.

Dall’altro canto si avrà uno studente che, anche quando studia e si applica, lo fa più per il famoso e desiderato pezzo di carta che non per un’esigenza interiore di miglioramento.

La speranza che ci deve accompagnare in questa ora buia è che questa devastante esperienza possa servire a togliere molte delle incrostazioni che sono presenti nella nostra società.

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