
Una scuola alla deriva
Basta andare con la memoria agli anni ’90 del secolo scorso per rendersi conto di quanto la scuola sia cambiata, anzi sia stata costretta a cambiare. Non voglio qui riproporre il solito refrain degli anziani che ammorbano lo spirito dei giovani con le considerazioni trite e ritrite che inevitabilmente iniziano con l’incipit “Ai miei tempi…”. Si tratta soltanto di una pura e semplice costatazione. Nei bei tempi andati la scuola aveva una legittimazione sociale che oggi ha completamento perso. Non è solo e tutta colpa della scuola stessa. I fattori cha hanno portato a tale situazione sono diversi.
Sicuramente ha inciso un più alto livello culturale diffuso che ha ridotto quel gap tra popolazione e classe docente, cosa che incuteva un po’ di soggezione nelle famiglie. La classe docente, conscia di tale fatto, celebrava i suoi riti. La quotidianità nelle aule, infatti, era scandita dalla quasi sacralità di cerimonie irrigidite dalla consuetudine. Inattaccabili. Inossidabili. Ad esempio, quando entrava un professore ci si alzava in segno di rispetto e di deferenza. Il docente, anche in seno alla comunità, era considerato una quasi autorità, una persona che meritava la fiducia di tutti e che traeva il suo carisma da una cultura sedimentata in anni di studio e di insegnamento.
Con il passare del tempo questa autorevolezza è andata sempre più a scemare, erosa dall’aumentato benessere che ha relegato i docenti, con il loro stipendio sempre più rinsecchito dall’aumento del costo della vita, in un cantuccio sempre più buio e dimenticato da tutti. A questo bisogna aggiungere l’atteggiamento della classe politica, di tutti i settori dell’emiciclo, che, nella sua miope enfatizzazione dell’economia legata al contingente, ha visto nella scuola semplicemente un settore in grado di assorbire grandi risorse senza produrre risultati. Questo ha favorito l’innescarsi di un tragico circolo vizioso. Infatti, data la sempre minore considerazione in cui veniva e viene tenuta la classe docente, l’insegnamento è stato, ed è tuttora, considerato l’ultima ratio, l’ultima spiaggia su cui approdare per trovare un lavoro al fine di condurre una vita dignitosa. Lo stipendio di cui godono i docenti italiani è il più basso in Europa. Questo comporta la conseguenza che la classe docente è composta da persone ben poco motivate. Viene meno quel fuoco che arde nello spirito, quel pathos, quel coinvolgimento personale e globalizzante imprescindibile per un educatore.
A questo bisogna aggiungere l’alterato atteggiamento delle famiglie che si pongono nei confronti della scuola come clienti sempre più esigenti, clienti che vorrebbero vedere i loro figli eccellere senza alcun sacrificio, senza mettere nessun impegno nell’acquisire cultura e sapere, delegando tutto al docente ed alla scuola. Tale atteggiamento è alimentato, inconsapevolmente, anche da certa pedagogia che fa ricadere tutta le responsabilità del processo di insegnamento-apprendimento sul docente, quasi fosse l’unico attore sulla scena. Si tende a trasformare il rapporto docente-alunno in un monologo del docente stesso che deve far penetrare, per il solo fatto di insegnare, il sapere proposto nelle menti inerti dei ragazzi. Si riaffaccia la similitudine degli otri vuoti da riempire, tanto aborrita da tutti, almeno a parole. Al docente tocca, invece, il ruolo di facilitatore, di soggetto proponente, di colui in grado di far intravedere nuovi scenari e nuovi orizzonti formativi e culturali, ma l’apprendimento è e resta un processo attivo a completo carico dell’alunno.
Così come il docente, anche il ragazzo deve mettersi in gioco, deve mettere sul piatto della bilancia la sua partecipazione attiva, consapevole e convinta.
Le famiglie dovrebbero raccordarsi con le scuole per raggiungere obiettivi condivisi, elevati e molto più efficaci. Ma soprattutto molto più duraturi, obiettivi che vadano oltre il semplice voto in pagella, ma segnino positivamente lo sviluppo e la vita stessa di figli e studenti.
La politica dovrebbe capire, anche perché non è poi tanto difficile, che il futuro va costruito oggi ed il luogo strutturalmente deputato alla costruzione del futuro è solo la scuola, il sistema di istruzione. È, infatti, la scuola l’unico luogo in cui si può e si deve dare forma alle giovani menti per plasmare il loro ed il nostro futuro su solide basi cognitive. Sul fronte comportamentale, invece, la scuola può solo innestarsi sul percorso tracciato dalle famiglie. Oggi molto spesso la politica preferisce navigare a vista perché è molto più facile e di gran lunga più deresponsabilizzante. Il grande uomo politico Alcide De Gasperi, padre del nostro sistema democratico, ebbe a dire che «un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione». E noi siamo governati non certo da statisti, e nemmeno da politici, ma solo da politicanti improvvisati, magari bravi nell’arringare le folle, grazie ad un eloquio efficacemente semplice ed infarcito di slogan e di luoghi comuni per racimolare, appunto, qualche voto in più. Abbiamo mandato al potere una classe politica la cui esclusiva attività è quella di vivere in una continua campagna elettorale e che, così facendo, si allontana ogni giorno di più dalle problematiche reali del Paese. L’unica linea politica che riescono a raffazzonare e che mette tutti d’accordo è la linea dei tagli lineari a scapito dei servizi essenziali quali la sanità e l’istruzione.
Basterebbe solo un po’ di buona volontà, come quella richiesta ai nostri alunni, per capire che vi sono spese che sarebbe più giuso chiamare investimenti perché portano un guadagno. Nella fattispecie i soldi spesi nella prevenzione portano un guadagno in termini di minor esborso per le cure e le degenze. I soldi spesi nella scuola, da rendicontare puntualmente e cavillosamente, portano ad un progresso collettivo, ad un incremento del know-how nazionale che si traduce in nuove tecnologie da non importare o addirittura da esportare.
Bisogna dare il giusto peso alla scuola, bisogna riconoscerle la considerazione che le è dovuta, perché «l’educazione non è solo socializzazione, né solo inculturazione, né solo sviluppo ma anche insegnamento ed apprendimento funzionali alla crescita umana verso noi stessi e verso gli altri» (Luciano Corradini, 2014).
Ma questo cambiamento nella considerazione della scuola e dell’istruzione non riguarda solo la politica. Deve riguardare prima di tutto la classe docente, che deve ripensare a sé stessa ed alla sua funzione, deve acquisire maggiore consapevolezza del suo ruolo e per far questo ha bisogno di ripartire da zero. Ha bisogno di dare una sterzata decisa al suo modus operandi. Deve riguardare anche le famiglie che non possono limitarsi a parcheggiare i loro figli nelle aule e delegare all’istituzione scolastica la loro educazione, salvo poi pretendere miracoli. Oltre tutto delegano lo sviluppo psichico e sociale a persone che non stimano, dimostrando tanta incoerenza.
È solo dalla sinergica collaborazione tra tutti e tre questi attori, che devono essere considerati e comportarsi da coprotagonisti, che si potranno ottenere risultati efficacemente positivi. È solo da questo necessario afflato comune che la scuola potrà tornare ad essere luogo di crescita personale, sociale ed umana gratificante, con positive ricadute sulle famiglie e sulla politica.
Non è un concetto nuovo, infatti, un antico proverbio africano insegna che “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”.