
No al primo della classe
Praticamente da sempre nella scuola è stata enfatizzata, ed ancora lo è, la cultura della competizione e, quindi, del primeggiare. A chi di noi non sarebbe piaciuto essere il primo della classe? Oppure, da genitore, chi non avrebbe voluto che il proprio figlio o la propria figlia primeggiasse tra i compagni di classe? Chi, fra coloro che portano i propri figli a calcetto, a danza, a tennis, a basket o da qualunque altra parte non spera in cuor suo che il proprio figlio o la propria figlia non eccella nell’attività intrapresa? È, presumo, un sentimento legittimo fino a quando rimane nel lecito e nel consentito. Bisogna, però, fare dei distinguo. infatti, una cosa è spronare il ragazzo a dare il meglio, ad impegnarsi al fondo di tutte le sue potenzialità, ma cosa ben diversa è voler a tutti i costi pretendere che sia il primo, sempre e comunque. Mentre il primo è un atteggiamento che ha un alto valore positivo e va quindi potenziato, il secondo rappresenta la degenerazione ultima del primo. Esso, infatti, ha una valenza nettamente negativa perché può portare, cosa abbastanza frequente, a comportamenti eticamente discutibili o dichiaratamente scorretti verso altri soggetti, siano essi i compagni di scuola o della squadretta sportiva. Per l’eccessiva pretesa di essere primi a tutti i costi a volta si passa sui diritti altrui, si prevarica e si finisce per essere invisi a molti e rimanere marginalizzati. E non è certo un bel risultato.
La nostra società, in effetti, ha messo l’edonismo al primo posto, ha attenzione solo per coloro che hanno successo, accetta, osannandoli, solo coloro che, in qualsiasi campo, dimostrano di essere al vertice. Non è importante come ci sono arrivati. L’importante è esserci. Basti pensare ai molti politici che si ritrovano a guidare le sorti di uno Stato che conta oltre 60 milioni di abitanti senza aver perseguito e maturato le necessarie basi culturali. Eppure raccolgono consensi, ed anche numerosi, solo perché sono considerate, a torto, persone in gamba per il fatto di saper cavalcare l’onda del disagio e del malcontento o il semplice sentire comune del cosiddetto uomo della strada. Manca loro, però, una visione d’insieme, uno sguardo proteso verso il futuro. Il popolo, aizzato, da politici con velleità di capo-popolo, ancora di più si convince della bontà della sua scelta espressa nella cabina elettorale perpetuando un circolo vizioso che in futuro non troppo lontano ci presenterà il conto. E sarà un conto salato.
Ma ritorniamo alla sindrome, perché tale si configura, del primo della classe. Già Pier Paolo Pasolini che, ricordiamo, è morto nell’ormai lontano 1975 cioè 44 anni fa, scriveva: «Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. È un esercizio e che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco».
Dobbiamo recuperare il “valore della sconfitta”. Nel corso della vita ognuno di noi è sicuramente andato incontro ad un qualche fallimento, ha assaporato l’amaro della sconfitta. Lo stesso vale anche per i bambini ed i ragazzi. Per loro può trattarsi di un’interrogazione andata male, un compito sbagliato, una gara persa o, in generale, di un qualsiasi obiettivo non raggiunto.
In questi casi i genitori, a seconda della situazione e del loro carattere, si arrabbiano, oppure vanno nel panico o, ancora, ne fanno una tragedia. Altre volte, invece, tendono a banalizzare sottovalutando, in tal caso, il turbinio di emozioni e di delusione, se non di vera e propria frustrazione, dei figli. È, invece, importante, in queste occasioni, sostenere bambini e ragazzi, ma anche gli adolescenti, in quel percorso di crescita personale che porta ad imparare a saper perdere. E devono imparare sia dal comportamento dei genitori sia dal modo come affrontano le sconfitte. Bisogna che l’adulto sia bravo a far passare il messaggio che ciò che conta è arrivare in fondo, migliorarsi, divertirsi, saper accettare che un altro possa fare meglio di noi in quel momento. Spesso, invece, gli adulti trasmettono, magari inconsciamente, il messaggio che si è importanti solo se si vince. Si pensi alle baruffe, che a volte scadono in vere e proprie scazzottate, tra i genitori che assistono alle partite di calcio dei propri figli, piccolini che militano nei pulcini. In tal modo si dimostra solo di credere nei risultati e nel profitto. Per i bambini ed i ragazzi, ma sicuramente anche per gli adulti, è importante sentirsi amati per quello che si è, con i propri limiti e le proprie difficoltà. Se aggrediamo nostro figlio o nostra figlia, o magari un nostro studente, per un obiettivo non raggiunto difficilmente egli avrà, in seguito, il coraggio di provare in quanto avrà paura di sbagliare, con tutte le negative conseguenze connesse in grado di mettere il ragazzo in un atteggiamento difensivo. Così facendo, però, si tarpano le ali allo sviluppo armonico della personalità del ragazzo.
Bambini e ragazzi che si sentono amati in modo incondizionato non avranno paura di provare, di mettersi in gioco e magari anche di sbagliare, perché riusciranno ad affrontare e tollerare di più le immancabili sconfitte e le eventuali prese in giro dei coetanei.
In caso di sconfitta, invece, bisogna che l’adulto, genitore o docente che sia, metta in luce le positività riscontrate e rilevate. Questo non vuol dire nascondere o minimizzare i punti critici, che il ragazzo deve essere portato ad individuare e poi aiutato a superare.
La prima cosa da fare, per la sua efficacia, è lasciare al ragazzo il tempo necessario a metabolizzare l’insuccesso, senza stressarlo per farlo parlare o, peggio, farlo sentire un “fallito” o, come preferiscono dire i ragazzi, uno “sfigato”. Solo in seguito è consigliabile chiedere e cercare di capire il come ed il perché di quanto è successo e aiutarlo a trovare una propria strategia risolutiva che possa portare ad un suo miglioramento. Si tratta di mettere in pratica i dettami della teoria nota come pedagogia dell’errore.
Quando un ragazzo ha provato a fare del suo meglio, quando si è adeguatamente impegnato, ha già raggiunto il suo scopo ed ha diritto ad essere rispettato. Altra cosa è l’abulia, il non provarci, il non impegnarsi. In questo caso la strategia da adottare è chiaramente diversa e deve puntare sulla motivazione.
Perdere non significa necessariamente essere dei perdenti o mancare degli strumenti e delle capacità per competere, ma fa semplicemente parte dell’esperienza. Il vero successo sta nel riuscire ad accettare e ad apprendere dalle piccole sconfitte e imparare da esse. In questa attività è molto importante l’atteggiamento e la vicinanza attiva di una figura adulta.