L’importanza dell’affettività

L’importanza dell’affettività

8 Novembre 2019 0 Di giuseppe perpiglia

Dalla lettera di una studentessa di liceo ad un giornale locale: «Abbiamo bisogno di un sogno, di un’idea, di una causa. Insegnateci fin da quando siamo alti un metro e dieci, quanto questo mondo vi abbia personalmente deluso, insegnateci con serietà la realtà dei fatti prima che la vita ci metta di fronte alla necessità di doverla affrontare impreparati, con il rischio che sentendoci poi traditi dal nostro mondo potremmo perdere non solo la fiducia in questo ma anche in ogni possibilità di cambiamento». La studentessa poi conclude con una frase che è un macigno per tutti noi adulti: «Il futuro c’è per chi ha avuto la fortuna di avere chi gli ha permesso di immaginarlo». E chi meglio di un docente può lavorare per permettere ai ragazzi di immaginare il loro futuro?

Ogni docente dovrebbe lavorare avendo tra i suoi obiettivi quello di far sì che i propri alunni siano in grado di inventare nuovi sogni, di porsi traguardi ambiziosi, di puntare all’utopia.

Nei nostri ricordi d’infanzia trovano sicuramente posto persone – la nonna, il nonno, la zia, un vicino di casa, i genitori – che ci hanno affascinato con racconti e fiabe, trasportandoci, come il pifferaio magico, in mondi incantati. Ed è proprio in questi mondi che il docente deve guidare i ragazzi, perché il loro futuro parte dai sogni che possono diventare obiettivi da raggiungere o meno, ma che sicuramente danno un senso alla loro vita.

Questo processo, però, ha bisogno di un ambiente idoneo, un ambiente rilassato in cui ognuno possa dire la sua senza paura di essere giudicato, un ambiente in grado di fornirgli sicurezza e tranquillità. E questa è una condizione estremamente necessaria, sia a casa come a scuola.

Il docente svolge un compito di fondamentale importanza per i ragazzi e, quindi, per il miglioramento dell’intera società. Egli non deve mai sentirsi appagato, ma deve porsi di fronte al suo lavoro, anzi alla sua missione, con l’atteggiamento dei beduini. Questo fiero popolo del deserto, infatti, ha scelto di vivere nelle tende in quanto vuole essere sempre pronto ad andare, a mettersi in viaggio, a vedere altri orizzonti ed altri paesaggi. È sempre pronto alla sfida di nuove mete e di nuovi traguardi in quanto consapevole della caducità delle cose. Tale consapevolezza lo porta a non accettare, a non accontentarsi della falsa sicurezza di una presunta stabilità, a non fidarsi dei traguardi raggiunti. Allo stesso modo il docente deve porsi sempre nuovi traguardi, deve accettare sempre nuove sfide, non può basare il suo lavoro su routine standardizzate che tendono a divenire stantie dopo breve tempo, in quanto ogni anno ha a che fare con ragazzi che non conosce e che gli fanno richieste pressanti e personali, sempre nuove e sempre diverse, perché il mondo cambia, cambia la scuola, cambiano le classi, cambia ogni singolo studente! È bene avere non già una standardizzazione bensì delle linee guida, che siano, però, molto flessibili in modo da adattarle alla bisogna, da curvarle al mutevole contesto in cui ci si trova ad operare.

In questa sua ricerca volta al miglioramento continuo, il docente non deve dimenticare o trascurare una variabile importantissima: l’unitarietà e la coerenza comunicativa del consiglio di classe e del collegio docenti perché tali caratteristiche permettono di incrementare la pervasività e l’efficacia della proposta educativa.

Perché la sua attività sia efficace e porti i frutti sperati, è necessario che il docente stia sempre attento ai segnali che provengono dai suoi alunni, che abbia le orecchie sempre rizzate per captare i numerosi messaggi che provengono dai suoi alunni, che abbia competenze adeguate per decodificare i diversi alfabeti e servirsi dei mezzi comunicativi più appropriati.

Ed a volte tutto questo non basta.

Allora deve essere in grado di “cambiare occhiali”, cioè di saper guardare con occhi diversi, di modificare il proprio modo di interpretare la realtà, deve essere in grado di modificare il proprio punto di vista per entrare in sintonia sostanziale con il discente.

Nel gruppo classe ogni alunno vive il rapporto con i compagni e con l’insegnante non certo in modo neutro, anzi. Infatti, ogni relazione, accanto al contenuto che la costituisce, offre sempre ai due interlocutori la reciproca considerazione del loro valore e questo contribuisce alla costruzione dell’immagine di sé. È a partire dall’atto intenzionale di fiducia dell’adulto nelle possibilità del ragazzo che si crea lo spazio relazionale necessario al fine di sperimentare un’immagine di sé positiva, in grado di aprirlo alla realtà ed al futuro. Il primo passo tocca all’adulto, il ragazzo non deve dimostrare nulla, non deve guadagnarsi l’accettazione: è l’adulto maturo ed equilibrato che accoglie la vita in sé e nell’altro, senza condizioni, indipendentemente dalla condizione di salute o di deficit propria del singolo. Gli aspetti metodologici propri dell’intervento del docente devono essere orientati all’incoraggiamento che fa leva sull’attivazione delle sue potenzialità e sulla sollecitazione dell’auto-supporto e della corresponsabilità.

Bisogna che il docente sia molto equilibrato e gestisca al meglio le proprie emozioni, perché non servono parole per comunicare al ragazzo gli eventuali ‘cattivi pensieri’: è sufficiente il tono della voce, uno sguardo, il modo di gestire lo spazio della relazione, …

Il docente non deve enfatizzare le negatività, non deve fissare lo sguardo su ciò che manca, deve, invece, porre tutta l’attenzione necessaria sulle potenzialità del soggetto. Il primo atteggiamento svuoterebbe la relazione educativa del suo senso di promozione del successo formativo per ogni alunno, indipendentemente dal punto di partenza, effetto che si raggiunge molto più facilmente e molto più frequentemente con il secondo atteggiamento.

Il denominatore comune è e rimane un rapporto basato sull’affettività e questa si manifesta nella cura. La cura, a sua volta, si deve tradurre nella premura, nella protezione. Avere cura di un’altra persona nel suo significato più proprio è aiutarlo a crescere ed a realizzare sé stessa, e questo è il fine ultimo di ogni educatore. Cura è occuparsi e preoccuparsi, cura è premura e devozione.

La scuola è l’ambiente principale nel quale dovrebbero formarsi le nuove personalità, come semi che germogliano con il fine di migliorare la società del domani. La scuola è luogo fondamentale per far crescere nel Paese la cultura dell’accoglienza, della solidarietà e dell’integrazione.

Non pensiamo subito agli immigrati regolari o clandestini. La solidarietà e l’integrazione possono interessare ogni singolo individuo della comunità. Quanti sono stati gli alunni che sono passati nelle nostre mani e che avevano un qualche disagio, manifesto o represso, conclamato o latente, certificato o meno, cronico o temporaneo. Anche questi vanno trattati con la solidarietà dovuta e aiutati ad integrarsi a pieno titolo nella comunità.

Tutto questo discorso non vuole certo sminuire le potenzialità di un’adeguata preparazione culturale, perché muoversi nell’attuale scenario socio-politico senza i saperi fondamentali significa pregiudicare fortemente il proprio futuro.

La società attuale ci porta ad eccessive semplificazioni: bello-brutto, buono-cattivo e questa cultura porta ad estremizzare le situazioni, spesso scadendo in comportamenti quanto meno inappropriati. «Si rende sempre più necessario ed impellente, quindi, uscire dalla logica bassa basata della coppia elementare amico-nemico in cui la società moderna è lentamente collassata. Bisogna lavorare per costruire un paradigma dell’amicizia e della fraternità che diventi il vero collante dei gruppi umani. L’individualismo, che ha messo al centro del mondo l’io, giunto al suo compimento edonistico, ha dissolto il legame sociale e ciò che appartiene all’affettività ed alla fiducia negli altri», così ammoniva Pietro Barcellona[1] già diversi anni fa.

Un gruppo classe che funziona mantiene in equilibrio la dimensione dell’efficienza e quella dell’affettività, riuscendo così a garantire ai suoi membri una produttività adeguata alle proprie capacità all’interno di un buon clima sociale, basato sulla comprensione profonda, ma ricordando che comprensione non significa giustificazione o compassione, ma sostegno nell’affrontare la realtà nel suo intreccio di vissuto personale ed esigenze oggettive, secondo le potenzialità proprie di ciascuno.

La scuola ed il singolo docente debbono scegliere e perseguire l’apprendimento olistico, cioè quell’apprendimento legato all’integrazione degli aspetti intellettivi, sociali ed emotivi dell’apprendimento da parte degli studenti.

L’inclusione implica un cambiamento: è un processo verso la crescita illimitata degli apprendimenti e della partecipazione di tutti gli alunni, un ideale cui le scuole possono aspirare ma che non potrà mai realizzarsi completamente. Una scuola inclusiva è una scuola in movimento.

Nella scuola impera, non solo nel rapporto docente-alunno, la cultura meritocratica, ma bisognerebbe cominciare a focalizzare, privilegiandola, la nostra attenzione sul concetto di bisogno. È un fenomeno, per altro, già iniziato a partire dalla legge 04/08/1977 n. 517 e dalla Legge 05/02/1992 n. 104, per giungere alle norme sull’inclusione, che riguardano e si fanno carico dei bisogni di tutti quei soggetti ricompresi in alcune sigle ed acronimi sempre più familiari: DSA, BES, … Bisogna, però, lasciare le categorizzazioni sul solo piano di un’operatività formale, ma non sostanziale.

L’insegnante, infatti, deve rifiutare la visione di un deficit costante e irreversibile nello sviluppo dell’allievo, ma deve postulare un’intelligenza educabile che si costruisce nella relazione comunicativa che si realizza nel riconoscimento reciproco. Una piena inclusione si ha quando una scuola è capace di rispondere adeguatamente alle diversità individuali di tutti gli alunni (Ianes, 2009). In questa ottica la scuola si configura come un’entità aperta al cambiamento, che si pone domande che la portano ad una continua revisione della sua organizzazione, valorizzando tutte le figure professionali che prendono parte alla vita della scuola (Booth e Aniscow, 2002).

L’apprendimento che i ragazzi realizzano dipende anche dalla qualità che la dimensione socio-affettiva assume all’interno dell’esperienza scolastica. La normalità di ogni alunno è intrisa da elementi di specificità che devono essere accolti per poter poi essere valorizzati. La vera qualità dell’integrazione è il risultato di un’esperienza scolastica che si caratterizza per la sua ‘speciale normalità’, risultato di una didattica, di un operare finalizzato alla promozione di tutte le dimensioni della personalità all’interno di una relazione significativa caratterizzata dalla specificità dell’incoraggiamento nella quotidianità e per tutti. L’alunno in difficoltà diventa un’occasione perché la scuola si ripensi come strumento di successo formativo per tutti gli alunni.

Per concludere, bisogna evitare che i giovani si chiudano e si raggomitolino in una “progettazione corta”. Per evitare una tale evenienza bisogna aiutarli a credere in sé stessi, dando per primi noi l’esempio, e puntare sulle loro aspettative, perché il futuro appartiene a chi crede nella bellezza dei propri sogni.

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[1] Pietro Barcellona (Catania, 12 marzo 1936 – San Giovanni la Punta, 6 settembre 2013) è stato un docente, politico, filosofo, giurista, saggista, giornalista, pittore italiano.