L’educazione è politica

L’educazione è politica

4 Agosto 2019 0 Di giuseppe perpiglia

«Oggi ci troviamo in una preoccupante situazione di “analfabetismo politico”. Con tale costrutto ci si riferisce all’incapacità di orientarsi razionalmente nell’universo della politica». Questa affermazione è del sociologo Alessandro Cavalli, professore ordinario di sociologia all’Università di Pavia.

Durante il ventennio fascista l’istruzione fu strumentalizzata per formare cittadini-sudditi. Nel dopoguerra, la grande tensione sociale ha, di fatto, impedito agli insegnanti di affrontare questioni che avrebbero acuito le divisioni ideologiche tra studenti e, ancora di più, tra genitori. Verso la fine degli anni ’60 (chi non ricorda il famoso ’68 con tutto ciò di buono e di meno buono ha comportato?) le tensioni hanno raggiunto il loro culmine e sono sfociate nella strategia della tensione.

In quel periodo si affermò e si acuì sempre più il solco che separava gli impegnati da coloro che, invece, volevano restarne fuori. Tra coloro che scendevano in piazza per dimostrare, spesso in modo violento, e coloro che preferivano rifugiarsi al sicuro delle loro case.

Oggi la situazione si è assestata nel senso indicato dal sociologo già citato. È doveroso, comunque, ricordare che oggi, spesso, c’è chi continua a manifestare contro tutto, anche in modo deciso: no TAV, no VAX, no Europa, no migranti, … in genere, comunque, si tratta di una reazione, spesso acritica, verso un generico sistema e le tematiche scelte sono solo dei capri espiatori. Si pensi, ad esempio, alla repulsione verso i vaccini contro ogni evidenza scientifica. Evidenza che contempla, anche, casi avversi il cui numero, però, non giustifica certo tutta la determinazione dimostrata.

La massa, comunque, è ritornata ad essere quella maggioranza silenziosa, che si adegua senza, appunto, far sentire la propria voce. È molto diffuso un allontanamento dalla vita politica che dovrebbe far riflettere chi, come il corpo docente, è chiamato proprio a far nascere e potenziare nei ragazzi l’interessamento verso la res publica e la gestione della polis, con le loro regole e le loro dinamiche.

In tutto questo, la politica è sicuramente complice se non causa primigenia. Essa, infatti, sfruttando strumentalmente le conquiste informatiche della tecnologia dell’informazione, ha bypassato tutti gli enti intermedi, andando a dialogare direttamente con ogni singolo cittadino. La comunicazione messa in atto, fatta in larga misura di slogan, di invettive e di ingiurie, vanno a colpire direttamente la pancia dell’individuo, perché mirano a far presa sull’emotività contingente, sfruttando in maniera massicciamente strumentale le paure e le ansie del cittadino medio. Di quel cittadino che non è più abituato, se mai lo è stato, a pensare con la propria testa, ad affrontare il mondo in modo razionale e riflessivo.

La presenza degli enti intermedi permetteva una riflessione condivisa sul messaggio ricevuto o emesso, il che permetteva di smussarne gli angoli più vivi, di addolcirne i contorni e, cosa più importante, di sedimentarne il contenuto. Questi passaggi, questi stadi successivi, creavano consapevolezza e permettevano di esperire, datosi il tempo a disposizione, maggiore riflessioni e considerazioni più ragionate. Oggi tutto questo è stato annullato dai social e dal loro uso finalizzato ad aizzare gli animi. Nell’attuale società della comunicazione è molto presente un vento di odio che viene alimentato ogni giorno.

Ecco, allora, che si impone in modo chiaro un’educazione politica necessaria per combattere quell’analfabetismo politico di cui parla il professore Cavalli. Essa si concretizza in due aspetti:

  1. Le conoscenze fattuali
  2. Gli spazi di partecipazione attiva.

La scuola italiana ha cercato, con la legge Moro del 1958, di rispondere all’esigenza delle conoscenze fattuali, cioè dei documenti e dell’organizzazione dello Stato. Ben diversa era, ed è, la situazione per quanto riguarda gli spazi di partecipazione attiva. La cittadinanza attiva, perché in ultima analisi di questo si tratta, nella scuola italiana ancora non trova il posto che merita, risultando assente o relegata in una residualità senza sbocchi.

La partecipazione attiva, sempre secondo l professore Cavalli, deve essere proposta come un modo nuovo per affrontare la dimensione valoriale e normativa, ossia l’etica pubblica, che riguarda tra ambiti:

  1. Il rapporto con le istituzioni (dello Stato e del mercato);
  2. Il rapporto con la società civile (associazionismo e volontariato);
  3. I rapporti interpersonali, ossia la capacità di stare insieme agli altri.

Oggi la scuola non si sogna certo di proporre esclusivamente conoscenze e nozioni, ma è protesa a fare acquisire competenze. A maggior ragione in questo ambito, per cui deve promuovere attività e comportamenti osservabili e, secondo criteri prestabiliti e valutabili, ed assumerli come punto di partenza per una didattica ed una riflessione collettiva in classe.

Alcuni criteri proposti dal professore Cavalli sono riportati di seguito:

  1. Diritto di parola deve essere riconosciuto a tutti e, soprattutto il docente, deve fare in modo che non vi siano preclusioni o censure preventive. Tutte le idee e tutte le opinioni devono avere pari cittadinanza e, quindi, diritto, ma anche dovere, di essere espresse.
  2. Capacità di argomentazione Ogni idea ed ogni opinione deve avere, per quanto appena affermato, diritto di parola, ma il docente deve curare che ogni alunno sia in grado, spronandolo se necessario, di argomentarle adeguatamente con riflessioni personali e/o con dati di fatto.
  3. Capacità di ascolto e possibilità di cambiare idea Il processo dialogico non funziona se non ammette la possibilità, per tutti gli interlocutori, di cambiare idea. Riflettere e ragionare sugli argomenti di volta in volta sul tavolo del dialogo porta a cambiare punto di vista e, quindi, anche a modificare la propria idea. Tale possibilità si basa, ovviamente, su un ascolto attento di quanto affermato dall’interlocutore, altrimenti di tratta solo di vuote parole.
  4. Capacità di prendere posizione di fronte a questioni controverse La scuola non può sottrarsi al compito di affrontare “questioni controverse”, cioè, in ultima istanza, questioni che afferiscono a quel grande calderone che è la politica, intesa come gestione della cosa pubblica. Tenere la politica fuori dalle aule scolastiche condanna la scuola a restare uno spazio al di fuori della realtà e quindi spunta tutte le sue velleità di istituzione formativa, restando soltanto un’istituzione informativa, superata ampiamente dalle tecnologie dell’informazione..
  5. Utilizzo della “pedagogia della controversia” Di fronte a questioni controverse è possibile evitare di cadere nelle trappole del silenzio da una parte e della militanza dall’altra. È utile, invece, sviluppare quella che Cavalli chiama la “pedagogia della controversia”. Per essere in grado di usarla il professore invita a ricorrere al modello di Dewey che, sul rapporto tra educazione e democrazia, resta ancor oggi un punto di riferimento obbligato.

Per questo articolo ho preso spunto da una relazione il cui teso integrale è possibile trovarlo sul seguente sito

http://adiscuola.it/Pubblicazioni/SemFeb2016_Atti/2-1_Cavalli/sa16_21_frame_dir.htm