Il conflitto Scuola-Genitori

Il conflitto Scuola-Genitori

14 Giugno 2019 0 Di giuseppe perpiglia

Nel 1974, con l’introduzione dei Decreti delegati, si voleva far uscire la scuola dalla sua autoreferenzialità che l’allontanava dalla società. L’altro fine, ancora più ambizioso, era di far dialogare scuola e famiglia in modo da favorire il pieno sviluppo della persona umana.

La riforma Moratti con l’introduzione, abortita sul nascere, del portfolio personale dell’alunno ha cercato di creare uno strumento che potesse mettere in grado la scuola di valutare in modo più efficace. Nello stesso tempo, però, permetteva alla famiglia di entrare nei meccanismi della valutazione stessa. Il portfolio, infine, coinvolgeva anche gli alunni che potevano “dire la loro” nell’attività valutativa.

Personalmente ero e sono favorevole all’utilizzo del portfolio, magari in una forma meno burocratizzata, più snella e più razionale. È uno strumento che, sempre a mio modesto parere, ben si presta ad una valutazione vera ed autentica che permetta al docente di avere un ventaglio di “prove a carico”, anche molto diversificate tra loro, ed allo studente di esprimere il proprio punto di vista, di esplicitare i suoi interessi. La famiglia, ancora, da parte sua, può trovare conferme o smentite all’idea che si è fatta del proprio pargolo e nel contempo può aggiungere qualche tessera, importante e sconosciuta al docente, del puzzle caratteriale del ragazzo.

La scuola, infine, ha, in tal modo, maggiore contezza delle abilità e delle conoscenze, ma anche delle predilezioni e delle esigenze formative di ogni singolo alunno.

Le cose, come tutti sappiamo sono andate in modo ben diverso.

La politica, perseguendo nella sua caratteristica incoerenza ipocrita, spinta anche dalla pressione forte e continua di una grave crisi economica, lungi da trovare soluzioni adeguate alla contingenza, ha cominciato a prendersela con la scuola. La prima genialata ha riguardato i tagli lineari dei fondi, già ben poco adeguati, e, cosa ancora più grave, ha iniziato una vera e propria campagna denigratoria nei confronti della scuola e dei docenti. Forse qualcuno di voi ricorderà la sortita del signor Brunetta, al tempo ministro della semplificazione, che, in un’intervista televisiva, asserì che i docenti erano una massa di fannulloni che godevano di tre mesi di ferie e che non lavoravano in modo adeguato. In questi ultimi tempi, si è accodato anche l’attuale ministro dell’istruzione, tale Mario Bussetti, dottore in scienze motorie, che, quando gli è stato chiesto se per le scuole del Sud fossero previsti maggiori stanziamenti per cercare di tappare le numerose falle strutturali, ha bellamente risposto che i docenti del Sud dovrebbero lavorare di più. Il signor ministro è rimasto, probabilmente, al tempo dei feudi e dei comuni quando prese vita la Lega lombarda, mentre dal punto di vista geografico ha, forse, già attuato la secessione, tanto cara ad una fazione politica oggi molto in auge, per cui le sue conoscenze si fermano al confine dello Stato pontificio, disconoscendo completamente la situazione socio-economico-strutturale del Sud del Paese.

Questa ignominiosa campagna denigratoria ha preso piede anche nelle famiglie che, al pari dei mass media, addossano alla scuola tutte le colpe. Le famiglie, però, dimenticano le loro di colpe. Prima fra tutte quella della delega. Nel corso dei miei tanti anni di insegnamento la cosa che più di tutte riusciva ad inquietarmi, provocando un vero e proprio moto d’ira, per quanto repressa, era la frase «professore, ci pensi lei». E no! Cari genitori, il figlio è vostro e ci dovete pensare voi. Io ho insegnato matematica e scienze nella scuola secondaria di primo grado, per cui stavo con i ragazzi per sei ore settimanali. In famiglia, invece, i ragazzi ci stanno molto di più. Il docente, chiunque esso sia e qualunque sia la disciplina insegnata, può solo innestarsi nel solco educativo e formativo tracciato dalla famiglia alla quale spetta, anche in base al dettato costituzionale, il compito di «[…] mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio» (art. 30).

Come ci dicono attendibili ricerche sociologiche, la famiglia sta sempre più disattendendo a questo suo precipuo compito. Il lavoro che assorbe la maggior parte del tempo e delle attenzioni di entrambi i genitori ha fatto sì che si instaurasse e si radicasse con grande virulenza la pratica della delega educativa: calcetto, basket, nuoto, danza, catechismo, … e chi più ne ha più ne metta.

Il boom economico, ormai solo un lontano ricordo, ha fatto la sua parte. Infatti, i genitori degli anni 70-80 del secolo scorso hanno cercato di dare ai loro figli tutto quello che a loro era stato negato dalle contingenze. Passando, poi, nel terzo millennio, sotto la spinta del consumismo, della globalizzazione e dell’idiosincrasica necessità di apparire, i genitori hanno via via sostituito i rapporti umani e parentali, caratterizzati dal passaggio di esperienze e di valori, con un semplice passaggio di oggetti: computer, play station, xBox, cellulare, tablet, …

D’altra parte, si ambisce a superare la normalità per cui ogni ragazzo deve diventare qualcuno. Ed allora iscrizione alla scuola di danza per sostituire la Carla Fracci, a scuola di calcetto per prendere il posto di Cristiano Ronaldo, e così via.

Ma la realtà, prima o poi, presenta il suo conto e, siccome non la si vuole accettare nella sua semplicità, diventa stringente trovare un capro espiatorio. E chi meglio della scuola e dei docenti può assumere questo ruolo?

I genitori, pur di non accettare il responso della realtà, diventano i sindacalisti dei loro figli. E come tutti i sindacalisti sono acriticamente schierati dalla parte dei loro protetti, a prescindere.

Inoltre, per evitare di doversi scontrare con i problemi esistenziali dei propri figli, cercano di evitare agli stessi ogni benché minimo problema o contrarietà. Questi sono stati definiti genitori spazzaneve perché si affannano a spianare la strada davanti ai ragazzi, non permettendo loro di abituarsi e di forgiarsi alle asperità della vita reale.

Ne segue che questi ragazzi, indeboliti da tale atteggiamento genitoriale, riescono solo a creare deboli relazioni sociali il che porta ad avere problemi con i compagni, con i docenti ed anche con loro stessi. Interviene, quindi, il genitore Lancillotto, sempre in difesa degli oppressi. Senza cercare di capire la natura e le cause del problema o della situazione conflittuale, il nostro genitore paladino si scaglia contro il docente, come se quest’ultimo potesse riempire la testa del ragazzo di conoscenze, di abilità e di competenze, oppure di atteggiamenti e di valori. Il docente, se è bravo, può solo fare delle proposte chiare ed accattivanti. Conoscenze, abilità, competenze sono il risultato di un processo lungo e complesso che coinvolge diversi attori. In primo luogo è il ragazzo stesso che deve essere responsabilizzato ai suoi doveri. Subito dopo, gli attori più importanti risultano essere i genitori e la famiglia a cui tocca il privilegio e l’onere di tracciare il sentiero di quel tortuoso percorso che porta all’adultità. Tale termine è stato coniato di recente e sta ad indicare l’insieme delle caratteristiche, ma soprattutto delle condizioni, che definiscono e caratterizzano l’adulto.

In questo sentiero, poi, vanno a confluire gli apporti del gruppo dei pari, la scuola con i suoi docenti, ma anche tutte quelle variabili e quegli accadimenti incontrollati ed incontrollabili che chiamiamo vita.

Per migliorare un rapporto ormai deteriorato basterebbe poco. Bisognerebbe, infatti, che scuola e famiglia ricorressero almeno una volta al buon senso. Ricorrere al buon senso può essere banale o molto difficoltoso. È un cane che si morde la coda. Infatti, se si è arrivati ad una situazione di contrapposizione netta tra famiglia e scuola è perché si è fatto sempre meno ricorso al necessario spirito critico, proprio quello che ci suggerirebbe di adottare atteggiamenti dettati dal buon senso, appunto.

Bisogna che qualcuno dei soggetti coinvolti, specificatamente la scuola e tutti i docenti, abbandonino il loro modo di fare e cambino paradigma comportamentale nei confronti degli alunni, delle famiglie ed anche di loro stessi. Ad esempio, la scuola, a volte, è oggetto di protagonismi fini a loro stessi e non rivolti a perseguire il comune obiettivo di una scuola che serve l’intero Paese, che è luogo di formazione e crescita delle persone, motore di sviluppo, vera e propria fabbrica di futuro.

L’azione di ogni singolo docente, come quella del sistema scuola, ha bisogno prima di tutto di fondarsi su una grande capacità di analisi, di elaborazione e di proposte. Chiede, poi, l’intelligenza ed il coraggio delle scelte.

È solo così che si possono costruire risultati veri ed efficaci, anche nel campo delle relazioni con gli altri stakeholder.

La scuola deve prendere consapevolezza di essere un soggetto che non esaurisce la sua funzione nell’educazione del cittadino e men che meno nel riempire moduli, cartacei o elettronici che siano, ma deve essere soggetto promotore di un più generale progetto di crescita sociale e democratica. Soggetto in grado di innestare cambiamenti.

Ed i processi di cambiamento non si subiscono ed ancora meno si esorcizzano: si assumono come sfida nella quale esercitare in modo quanto più possibile incisivo un ruolo che sempre meno potremo dare per scontato, ma sempre più dipenderà dalla qualità e dalla credibilità delle proposte che saremo in grado di esprimere.

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